Se potete, fate un viaggio a Cuba. Perché è assolutamente bella e perché ci sono mille cose da vedere e, soprattutto, una storia da osservare. Io da buon turista europeo ho fatto il classico tour seguito da una settimana di spiaggia sul mare caraibico dell’oceano atlantico e me ne sono pentito. Avrei dovuto fare al contrario un tour di 14 giorni, magari inframezzato da un paio di giorni di riposo sul mare; è un viaggio però piuttosto faticoso e richiede un certo spirito di adattamento.
Per quel poco che ho visto, ho capito come, anche da insegnanti, bisognerebbe preparare i cosiddetti viaggi di istruzione. Ammesso che, a parte l’ultimo anno delle superiori, se ne facciano ancora, certamente non a Cuba ma anche con mete vicine tutte nostrane, il principio è sempre lo stesso. Perché si viaggia per conoscere e, quindi, per costruire il nostro il nostro modo di pensare, di giudicare.
È in arrivo il Natale e per tradizione quasi tutte l nostre scuola si apprestano a celebrare in vari modi questa ricorrenza, di solito con molti canti di ispirazione religiosa. In molti istituti fioriscono pure i presepi. Puntualmente la stampa riporta la ricorrente questione: accade che alcune scuole non fanno nulla o celebrano questa festività con manifestazioni “laiche”. Di conseguenza si scatenano le polemiche di coloro a cui l’assenza dei canti tradizionali e del presepio non va giù.
Ora, per quanto dicono i giornali, dai dirigenti scolastici e consigli di classe, che rifiutano la tradizione religiosa natalizia vengono portate due motivazioni: l’estraneità a questa ricorrenza di alunni, che sempre più numerosi nelle nostre scuole, ma ancora minoranza, non appartengono alla religione cristiana. Si instaurerebbe una qualche forma di discriminazione.
Questo argomento suscita l’indignazione di coloro che vedono messa in pericolo la nostra “identità”, un cedimento alle pretese di assoluta parità, anzi addirittura di supremazia, di coloro che ci stanno “invadendo”. Quindi, ciò favorisce la speculazione politica di chi ritiene che, attraverso una spontanea o guidata, indignazione di molti genitori, si possono ricavare vantaggi. Ma qui non approfondisco questa questione perché m’interessa più la seconda motivazione.
La scuola italiana è non confessionale, ma “laica”. Tutto ciò che essa offre dovrebbe essere reso libero da influenze di tipo confessionale o religioso. Dovrebbero essere escluse le celebrazioni religiose per facilitare l’integrazione dei bambini non cristiani ma, soprattutto, per mantenere il valore aconfessionale (laico? In fondo, che cos’è la laicità? Non è detto che lo si sappia) dell’insegnamento e dell’istruzione.
Non siamo quasi più al tempo nel quale il parroco del paese a Pasqua andava a benedire la scuola, si tratta di vedere se la celebrazione del Natale cristiano (“Tu scendi dalle stelle o re del cielo…, Adeste Fideles…”, il presepio…) possa essere vista in contrasto appunto con la laicità.
Prima osservazione: esiste un Natale non cristiano? Natale o è cristiano o non è. Il Natale o è religioso o non è. Comunque lo vogliamo vedere, il Natale è la celebrazione di una nascita di un bambino. Lo consideriamo simbolicamente la celebrazione della nascita di tutti i bambini e il prolungamento della vita? Va benissimo, ma non è il Natale che celebriamo noi. “Natale laico” è un ossimoro. Esso è per sua definizione un Natale cristiano. Possiamo inventarci qualcosa altro, non so, festa della luce, dell'albero verde, del panettone, dell’inverno… Ma Natale è e rimane cristiano. Lo stesso Babbo Natale, che porta dolci regali, è una figura solo apparentemente non religiosa, se vogliamo profana, ma si carica di simbolismo religioso (perché i genitori che preparano la sera prima i doni per i bambini piccoli hanno bisogno di una figura simbolica come quella di Babbo Natale, se non come richiamo a una presenza “magica”, quindi pagana, ma pure pre-religiosa?).
E allora che cosa ha a che vedere il Natale-cristiano con la scuola sempre più multirazziale e multiconfessionale?
Il problema è quello delle radici e dell’identità, che non è assolutamente un tema secondario, anche se un tema equivoco. È un problema che riguarda il passato e il peso che ha nel presente. Ma non nel senso di “identità” ideologica, accettata acriticamente.
Ed ecco subito il confronto passato-presente. Quali sono le radici di un popolo di un nazione nella quale le chiese, sorte come luogo di preghiera e di incontro di una comunità “cristiana”, sono ormai praticamente vuote nei riti, al massimo considerate e visitate come musei? Quanto sono presenti e vissuti oggi i valori fondanti del cristianesimo, e quindi dell’identità?
Eppure le radici esistono e come! Se per radici intendiamo come nei secoli il cristianesimo ha contrassegnato il territorio: chiese, monasteri e conventi sono presenti ovunque, i santuari, spesso con richiami a metà tra sacro e profano, attraggono folle in ogni periodo dell'anno e, inoltre, le croci su ogni cima, capitelli nelle contrade marcano il territorio, i più svariati santi danno nome da secoli a città e borghi, mentre feste e processioni sono vissute anche oggi con grande partecipazione dalla religiosità della gente. Chiunque vada visitare qualsiasi museo, lo troverà ricco di pitture della vita di Cristo, immagini delle più svariate madonne, e di innumerevoli santi. Sì, indubbiamente la nostra nazione, o se vogliamo la nostra civiltà, ha radici cristiane.
Ma il cristianesimo quanto oggi è identità reale caratterizzante? Questo è molto discutibile. C'è stato un processo di secolarizzazione molto accentuato da decenni, che ha fatto evaporare ma non ha sostituito. Il sentire di appartenenza cristiana a una comunità è oggi spesso surrogato da una adesione a una fazione che si caratterizza come contrapposta ad altra fazione. Ma, come appartenenza, è pur sempre surrogato, e della peggiore specie. Oggi il cristianesimo è sempre la religione della maggioranza della gente, se si vuole identitaria, ma una religione confusa, ed è vero, sono giunti numerosi fra noi bambini e ragazzi che nessun esperienza hanno di questo nostro “essere cristiani”. Cosa vedono o possono conoscere essi del cristianesimo da come è vissuto oggi dalla stragrande maggioranza dei “cristiani”?
Allora sono nel giusto coloro che vorrebbero togliere al Natale ogni connotazione religiosa nel celebrarlo a scuola? Via i presepi, i pastori, la loro sostituzione con alberi verdi finti e una fantasmagoria di luci vivaci ma insignificanti? Ma queste feste, anche se sponsorizzate dalle leggi del commercio, non hanno alcun fondamento nella mente e nel cuore di nessuno popolo e non incodono in alcun modo nel tessuto educativo che la scuola può dare. Sarebbero soltanto tanto un momento di svago, di vacanza. È vero pure che da decenni tutti proclamiamo che il Natale è solo una ricorrenza consumistica (almeno quando lo poteva essere) sorretta da musichette sdolcinate (c’è niente di più assurdo dello zampognaro sui nostri centri commerciali?). Cosa rappresentano i tradizionali addobbi natalizi, l'albero di Natale le lampadine brillanti accese se non un generico invito a essere un po' più buoni?
Che il cristianesimo segni oggi l'identità del nostro popolo ne dubitiamo, il richiamo a una identità cristiana appare sempre più come un appello a sostegni elettorali, che nulla hanno a che vedere con la difesa di un’identità di popolo e di nazione.
Il rifiuto della celebrazione cristiana del Natale portata avanti da un certo numero di educatori (appunto “cristiani”, perché battezzati) non rivela tanto ostilità, ma piuttosto una forma di indifferenza, che però è frutto anche una mancanza di cultura. In fondo è come se dicessero: “perché dobbiamo crearci dei problemi con argomenti religiosi, che forse anche a noi dicono ben poco?”. Che cosa rappresentano, il presepio e il canto di “Adeste Fideles” se non una forma di nostalgia educativamente non caratterizzante?
Pertanto, il problema non è tanto del Natale sì, Natale no, a scuola, ma quale posto ha (o dovrebbe avere) la religione a scuola (e, perché no?, nella vita) in un nostro tessuto storico certamente profondamente cristiano, ma una società attuale profondamente de-cristianizzata oltre che nei valori, anche nella conoscenza dei contenuti della fede stessa. Immaginiamo la visita di una classe a L'Ultima Cena di Leonardo da Vinci, in assoluto una delle opere d'arte più importanti di tutti i tempi. Gli alunni saranno portati alla conoscenza della carica innovativa dell’opera o dell’impatto da essa avuto sugli artisti di tutte le epoche. Ma quanti alunni comprenderanno che Leonardo rappresenta il momento più drammatico del Vangelo quando Cristo annuncia il tradimento di uno degli apostoli? Non si può afferrare questo se non attraverso la conoscenza di alcuni fondamentali contenuti, quelli che una volta si imparavano al “catechismo”.
Che cosa rappresenta questa volontà di presenza del presepio in tutte le scuole? Vogliamo che sia tramandata la fede che Dio si è incarnato fra gli uomini, oppure trasmettiamo una generica nostalgia per l’infanzia perduta, per quando pensavamo di essere un po’ più buoni, e forse lo eravamo, o, forse, no.
Che cosa significa realizzare dei contenuti religiosi a scuola, e quindi fare il presepio, nel senso di dare significato ha un contenuto cristiano? Ecco la domanda che la questione del presepio sottintende, a cui ciascuno dovrebbe rispondere in modo personale.
Se il presepio è un generico invito al “volemose bene” per un ben quantificato periodo dell'anno, assolutamente non disturba nessuno, tanto meno i musulmani (e neppure i dirigenti laicamente più scrupolosi). Avrebbe ragione qualche vescovo che, sempre se i giornali riferiscono correttamente, dice che dobbiamo comunque noi (“cristiani”?) fare “passi indietro” se ciò serve a mantenere un “clima pacifico” al nostro interno, anche scolastico.
Se è memoria di tradizioni passate è ricordo nostalgico, e anche questo per nulla disturba.
Se vuole essere una riproposta di contenuti e di valori di fede cristiana, beh allora dobbiamo anche preoccuparci perché il confronto con altre culture e religioni qui si pone realmente con forza. In quali termini, quali contenuti, quali proposte, penso sia tutto ancora da inventare. Però, è un gran bel compito per l’integrazione e una scommessa per il futuro, quando l’Italia, tradizionalmente cristiana, ma ora non più, dovrà riacquistare una nuova e più precisa identità. Ancora cristiana? Non saprei. Personalmente ne dubito.
Antonio Boscato
Dal momento che tutta l’estate è stata segnata dalle tragedie dell’immigrazione dal Nord Africa e ora anche dall’area balcanica è molto probabile che esse si presenteranno pure nella scuola alla ripresa dell’anno scolastico.
L’occasione è che un alunno riporti le voci raccolte a casa o da uno dei tanti frequenti talk show televisivi: “è in atto una invasione, quelli che arrivano sono clandestini; noi italiani li dobbiamo mantenere; mentre ci sono italiani che non arrivano a fine mese, questi si beccano più di mille euro a non far niente, risiedono in alberghi da quattro stelle, ma neppure possono lavorare altrimenti portano via il lavoro agli italiani”.
Sono argomenti questi che abbiamo incontrato possiamo dire ogni giorno ed è quindi probabile che con essi anche i ragazzi si confrontino.
La scuola, o meglio l’insegnante interpellato, come può affrontare questa situazione?
Può ricorrere a generici appelli alla tolleranza, al senso di solidarietà, ricordare anche i milioni di italiani una volta emigranti in tutto il mondo, il valore dell’accoglienza… E qui va tutto benissimo, ma non è sufficiente perché gli argomenti, sentiti a casa e in giro, emotivamente attraggono molto di più.
E se la scuola approfittasse per dare una risposta veramente culturale alle, chiamiamole, istanze che emergono? Proviamo a delineare un percorso.
Si ammette che gli avvenimenti rappresentano sicuramente un problema a cui non si è e non si poteva essere preparati; impreparati lo sono stati tutti: governo, pubbliche istituzioni, enti… Nei numeri e nelle modalità di concretizzazione sono un fatto nuovo, ben presente nel passato storico dell’intera umanità ma che, evidentemente, non poteva essere previsto oggi in tali forme.
Agli alunni va spiegato che ogni problema porta con sé il concetto della necessità o della possibilità di una soluzione. Ogni giorno noi ci facciamo delle domande e quotidianamente proviamo a dare delle risposte, magari non adeguate, ma le migliori possibili nel senso della ragionevolezza.
È vero, siamo di fronte a un fatto nuovo e ogni novità suscita immediatamente ansia, come gestirla?
Un proverbio tedesco afferma: “Bussarono alla porta, andai ad aprire, ma non era il diavolo”. Il suo significato non è difficile. Prima di decidere se siamo di fronte a un grande pericolo, bisogna aver la forza di affrontare la realtà guardandola bene in faccia e scoprire che in realtà non è così brutta come appare. Aprire la nostra metaforica “porta” significa conoscere, non per suggestione, sentito dire, ma andare a cercare dei dati. Fondarsi sulla ragione è la prima scelta.
Impariamo a dare il vero significato alle parole. Tornare ad utilizzare il dizionario, perché no?, non sarebbe mica male
Siamo di fronte all’invasione? Tutti usano questa parola che però è estremamente traviante perché falsa. Il dizionario ci dice che si ha invasione quando c’è ingresso nel territorio di uno stato da parte delle forze armate di uno stato belligerante, per compiervi operazioni belliche, con o senza l’intenzione di occuparlo stabilmente. È naturale perciò che sia per tutti un dovere respingere un’invasione.
Se usassimo al contrario la parola migrazione-immigrazione? Il dizionario dà questa definizione: ogni spostamento di individui, per lo più in gruppo, da un’area geografica a un’altra, determinato da mutamenti delle condizioni ambientali, demografiche, fisiologiche. C’è differenza? Direi di sì, almeno non c’è più quell’accento minaccioso e di pericolo che il precedente uso del linguaggio portava con sé.
Le emigrazioni come tali hanno sempre fatto parte della storia dell'umanità. Per i pochi che lo ricordano, l'esodo del popolo ebraico dall’Egitto verso la Terra Promessa è un po’ la figurazione di tutte.
Un passo avanti è rappresentato dal fatto di cominciare a riflettere su precisi dati quantitativi e qualitativi. Quanti sono questi nuovi arrivati? Da dove provengono? Dove vogliono andare? Che cosa cercano…? Perché si muovono? Certamente tutti i giornali suggeriscono risposte, che però sono molto diverse. Non è lo stesso scrivere che vengono per sfuggire alla fame, oppure per cercare genericamente una vita più comoda, più facile, perché si pensa di trovare qui un Eldorado. Tutte le parole hanno un loro peso.
Conoscere i “diversi”. Sono diversi, ma non sono “i diversi”. Non sono un miscuglio informe. Ciascuno degli arrivati ha una cultura, tradizioni, arte, costumi, molto differenti anche da chi è arrivato assieme…. Tradizioni, religione, usi, costumi che non sono i nostri, ma non sono “alieni”. Il fatto di avere la pelle nera o di un colore diverso dal nostro non li apparenta ad esseri subumani. Si scopre che fra essi ci sono ingegneri, medici, insegnanti, professionisti. Noi siamo portatori di una civiltà fra le altre, non di una civiltà superiore.
Conoscere significa qui soprattutto conoscere le loro esperienze, ma per questo è necessario incontrarli. Niente come il racconto può essere portatore di autentica conoscenza. Diventare persone che incontrano, essere disposti a incontrare senza preconcetti ostili, ma nella verità, può rappresentare una grande meta educativa. Incontrare non un numero fra tanti, ma una “vita”.
Essere persone razionali non è sconveniente per persone in crescita. Un problema non sostituisce altri problemi. Il problema della crisi e della povertà oggi in Italia non è generato da questa tumultuosa immigrazione-invasione. Esso è precedente e non si annulla liberandosi del primo. Quello resta ha altre cause e va affrontato con altri strumenti, altrimenti saremmo di fronte alla ricerca di alibi e di fuga dalla realtà.
L'immigrazione è una minaccia o una risorsa?Affermare che gli immigrati sono una risorsa in certi ambienti equivale a una bestemmia. “Succhiano risorse, non sono risorse”. Eppure non è difficile smontare dialetticamente questo pregiudizio. La risposta la troviamo nella presenza dei sedimenti che le varie culture hanno lasciato in un territorio. Se riflettiamo un attimo, anche il Cristianesimo che, a giudizio di tutti, ha dato forma e sostanza alla nostra civiltà, è frutto di una “importazione” straniera. Esso è nato in Palestina ed è soltanto la sua inculturazione dell’Impero Romano che ha permesso che noi diventassimo eredi e proprietari (ne siamo consapevoli?) di quell’universo artistico di cui siamo giustamente orgogliosi. Credo che in qualsiasi nostra città è possibile trovare realtà dove la presenza di persone provenienti da altri paesi ha rappresentato un’occasione di crescita per tutta la comunità.
Ma in questo appena delineato percorso educativo una meta appare più importante: i fatti, come appaiono le testimonianze, nei reportage, nei servizi giornalistici devono trasformarsi in un’esperienza: è un’esperienza che esiste il male, che esso può raggiungere punte impensabili. Non si tratta più di testimonianza storica di persone ormai anziane che hanno vissuto la guerra di allora, ma la presenza di persone, anche bambini, che portano nella mente e nella loro carne i segni di una sofferenza difficilmente immaginabile, di chi deve lasciare tutto per sopravvivere, o almeno sperare di sopravvivere.
Questa è forse la risposta culturale che può dare la scuola e da qui discende un compito che attende le future generazioni: ricostruire le rovine della guerra, ma soprattutto costruire la pace partendo per questo con l’incontro con i “diversi”, compito che appare non solo importante ma inevitabile, dal momento che i “diversi” sono fra noi e ci rimarranno, probabilmente per sempre. (Antonio Boscato)
Tutti gli osservatori concordano che il vivere quotidiano di notevole parte della popolazione è condizionato da insicurezza, che velocemente evolve in sentimenti di vera paura di fronte a fenomeni incontrollabili e ingestibili.
È proprio in questo nostro tempo che il fenomeno epocale dell'immigrazione dall'Africa e dai paesi in guerra è certamente quello che mette più in crisi la gente, accostando e accrescendo tutte le incertezze per un futuro che sembra dare ben poche speranze.
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