Storia raccordo tra passato e presente all’interno di una didattica di unità di apprendimento laboratoriali
di Antonio Boscato
Il Medioevo
Unità didattiche (PDF):
1) Arrivano i “Barbari”!
2) Il Monachesimo nell’Europa prima del 1000
3) Pellegrini, Crociati, Mercanti
4) La Città di Dio e la Città dell’Uomo
5) La Comunità Civile: dall’organizzazione feudale al Comune
6) La formazione degli Stati nazionali un confronto: Spagna e Francia
Io uso raramente Facebook e solo in due occasioni: quando mi viene voglia di comunicare qualche mia riflessione oppure se ritengo utile condividere qualche articolo di giornali e riviste che trovo stimolanti per conoscere o per riflettere e giudicare. Pur avendo viaggiato tanto le foto che “posto” sono quelle che mi hanno dato qualche particolare emozione. Il che, ovviamente, non capita tutti i giorni. In compenso quotidianamente sulla mia pagina trovo tanti post di “amici” che sulla loro scrivono qualcosa e poi condividono.
A me viene di fare questa osservazione: a parte qualche eccezione, trovo che moltissimi, vorrei dire quasi tutti, sono condivisioni prese probabilmente da altre pagine e fatti girare, solo perché le condividono o piacciono. Ma mi domando l’utilità in questo dei “social”. Voglio dire che cosa comunicano delle loro idee, del modo di guardare la realtà, di quello che vogliono ecc, cioè che cosa alla fine conosco di questi amici, che cosa mi comunicano?
Attraverso le loro condivisioni conosco indirettamente le loro preferenze o quello che hanno combinato (se si sentono vicini a quel partito o lo odiano, se sono andati a mangiare la pizza con gli amici…, se hanno preferenze per i cani o per i gatti…, se l’amico/a del cuore si è trasformata in amore o il contrario…). Ma se sono amici veri che conosco personalmente o colleghi questo già lo so.
E poi i post “contro o pro” non cambiano nulla perché semmai sono visti da chi ha già quelle idee o quella visione della politica e del vivere…
Hanno l’aria di essere solo degli “sfogatoi, e i commenti, quando ci sono, sono di una grandissima banalità. Dove sta la vera utilità dei social? Perché questo bisogno di condividere con il mondo intero aspetti personali della propria vita?
In compenso qualche “amico”, di cui ovviamente non faccio il nome ma c’è, rivela nei suoi post grande intelligenza e capacitò di “dare” veramente qualcosa. E quando trovo il suo post lo leggo attentamente anche se non metto quasi mai “mi piace” anche per non dare occasione all’algoritmo di inquadrare preferenze atteggiamenti gusti che possono farmi diventare un “numero” su cui porre l’attenzione come oggetto del “grande mercato globale”, perché, ma credo lo si sappia, il “Grande Fratello” ci segue attentamente giorno per giorno.
(Antonio Boscato)
Sono stato in Giappone per 17 giorni. Pochi per dire di aver visitato il Paese, abbastanza per riportare delle impressioni che esprimo in qualche riflessione, senza la pretesa di scrivere un diario di viaggio-tipo per una delle tante rubrica “turisti-per-caso”. Infatti, non troverete qui indicazioni di alberghi, descrizioni di luoghi visitati, costi sostenuti, ma soltanto una raccolta di emozioni in un incontro breve senza la preoccupazione di rispettare i canoni turistici prefissati. Comunque il mio programma di viaggio ha ricalcato quello consigliato a chi si avvicina per la prima volta al Giappone: da Osaka a Tokyo per i principali centri di Nara, Kyoto, Kanazawa, Takayama (il viaggio può essere svolto anche all’inverso da nord verso sud, ma la prima scelta offre il vantaggio di arrivare alla capitale con un minimo di preparazione e di allenamento alla infinità di cose della città e che possono apparire travolgenti, o almeno così lo pensavo io).
Con una premessa.
Tutti i principali tour operatori presentano programmi di viaggio in Giappone, di solito di una dozzina di giorni, con possibili estensioni, più o meno indicando nei loro cataloghi le località più “gettonate”, minime indicazioni orientative e le solite immagini di richiamo: il traffico di Tokyo, il monte Fugji, il treno proiettile, richiamo ai templi più famosi.... e quindi il Giappone, paese già lontano e misterioso, con una lingua incomprensibile, appare oggi fascinosamente alla portata di tutti e la presenza di semplici turisti italiani e non dei tradizionali operatori economici la si avverte.
Ma perché scegliere questa meta, superando qualche incertezza iniziale?
Ecco una domanda che io mi sono fatto e ho fatto a più di uno che, presupponevo, avesse conoscenza ed esperienza in materia, preparando questo viaggio (perché da quando ho deciso di viaggiare, ogni meta la preparo accuratamente in modo che alla fine la partenza da casa sia il punto di arrivo di un "viaggio" precedentemente iniziato, dove c’è l’incontro con le curiosità e l’interesse suscitati dalla ricerca).
Ovviamente ho consultato internet, ma soprattutto ho trovato utile una serie di filmati per lo più di giovani che hanno postato, si dice così?, ricordi e impressioni dei loro viaggi giapponesi.
Ho trovato, molte informazioni pratiche, anche molto utili: suggerimenti, come comportarsi (o non comportarsi), cosa privilegiare nelle visite, come girare, dove magiare in modo economico, e tanto altro, pure trucchi per cavarsela, ma quasi nessuna indicazione un po' precisa sullo spirito e sul vero Giappone, segno questo che entrare dentro al Paese anche da chi l’ha visitato è difficile, oppure richiede delle sensibilità letterarie che ben pochi oggi sono capaci di esprimere.
Nella mia ricerca ho trovato pure qualche deluso, anche questo è un segnale che, forse, chi ha incontrato il Paese e la sua civiltà non aveva sufficiente sensibilità oppure ci si recava senza una vera traccia o senza avere chiaro cosa aspettarsi o ricercare. Il Giappone, infatti, non si visita si penetra. Certo, è un paese "difficile": una civiltà raffinata, tanto da apparire anche incomprensibile, ma molto distante dalla nostra. Torna utile ricordare però che il Paese ha incontrato l’Occidente solo dopo la seconda guerra mondiale, alla conclusione di una sua secolare chiusura, ma della nostra parte del mondo non ha forse preso le cose migliori.
Del resto anche in campo religioso il Giappone è il paese asiatico più restio ad accettare la religione cristiana che nel passato è stata pure ferocemente perseguitate, e anche ora i cristiani lì sono molto pochi, mentre sono significativamente più presenti tra altri paesi asiatici come Cina e Corea.
La risposta migliore, a mio giudizio, l'ho avuta da una persona che per motivi familiari viaggia e conosce benissimo il Paese: "caro amico, ricorda che il mondo si divide in due parti, il mondo e il Giappone". "Si, ma io ho già visitato l'Australia..." "Ricorda, l'Australia è ancora il mondo. Il Giappone è altro ".
Espressione retorica? Dico subito che, dopo questa esperienza sono portato a dargli ragione. E, quindi, ripeto la domanda: perché si va in Giappone?
Se è per incontrare il gigantismo della modernità, potrebbe bastare la città di Tokyo: i grattacieli, lo smisurato affollamento sono caratteristiche di altre megalopoli ma, per quanto io non posso dire di aver visto tutto, credo che Tokyo le batta tutte. La folla, soprattutto quella che invade la stazione di Shinjuku in tutte le ore, è certamente qualcosa di sconvolgente, meglio non soffrire di agorafobia. I grattacieli sono impressionanti, ma li trovi altrove. È che la città è sterminata. Anche quando esci con il treno, l’ammassamento dell’abitato sembra non finire mai. Semmai è l'impressione di una mancanza, almeno apparente, di un piano urbanistico che crea notevoli contrasti. Il grattacielo di 40 piani può benissimo coesistere accanto al condominio di 3 piani. Mi è stato detto che il Giappone è così perché solo il 15% del territorio è coltivabile e solo il 5% è edificabile, per cui gli abitanti tendono per forza ad ammassarsi.
Ora se un amico facesse a me la stessa domanda che io ponevo prima, cosa gli potrei rispondere?
“Viaggia, gira ovunque tu voglia in Giappone, nelle metropoli e nelle piccole città, ma soprattutto osserva. È l'unico modo per conoscere”. Perché, a men che tu non abbia una buona conoscenza della lingua, non puoi comunicare con la gente. Ma neppure la conoscenza della lingua ti sarebbe sufficiente, perché i Giapponesi verso gli stranieri sono diffidenti. Non ostili, tutt'altro, anzi gentili (talvolta in modo quasi esagerato, ma questo appartiene al loro modo di essere giapponesi, ti danno una mano, ma se in metro accanto a te si libera un posto, restano in piedi ma non vengono ad occuparlo, è un modo per marcare il loro distacco).
Il loro modo di salutarti è l’inchino, ma come e quanto s’inchinano è indice di una loro visione gerarchica della persona che incontrano. Non ci si dà mai la mano.
Però poi succede anche il contrario. Ad Osaka volevamo chiedere solo una informazione sulla direzione verso la stazione ad un occasionale passante e costui, forse ritenendo che non avremmo capito, ha deciso di accompagnarci fino a destinazione in un percorso di un quarto d’ora portando la valigia di mia moglie. Noi, inesperti, ci sentivamo in dovere di fare una piccola mancia (che in Giappone non si fa mai, in questo caso è stata una scorrettezza), ma questa persona ha chiesto invece solo di fare un selfie assieme.
Qualcuno mi chiederebbe: ma come fai a girare in un Paese dove si parla una lingua che quasi nessun europeo conosce, con una scrittura indecifrabile e dove ben pochi parlano inglese? Non è stato difficile, perché accanto al giapponese esiste ovunque la trascrizione in caratteri latini (le fermate degli autobus o le guide nelle stazioni) o la traduzione in inglese degli oggetti esposti nei musei e molto spesso nelle città i menu dei ristoranti sono bilingue, oppure sono visualizzati con foto e i prezzi indicati sono quelli (a cui vanno aggiunte le tasse), ma non sbagli di uno yen. Oltre alle guide della serie Planet, alla fine molto essenziali e insufficienti, il grande mezzo utilizzato per girare con sicurezza sono le mappe dettagliate di Google sempre se tu sei connesso a Internet. Veramente vai a colpo sicuro e non sbagli mai.
Ma a uno che mi chiedesse qualcosa sulla base della mia breve esperienza, che consigli mi sentirei di proporre? In fondo, che cosa mi ha colpito ed attratto di più?
Non aspettatevi, e non mi aspettavo, magnifici panorami, di quelli che, come altrove, ti tolgono il fiato. Le bellezze del paese non si offrono immediatamente agli occhi del turista. Sotto l’aspetto paesaggistico il Giappone appare quasi “minimalista”, fatto di piccole cose che riprendono e riflettono dei mondi. Un giardino Zen di qualche centinaio di mq è effettivamente un “mondo” e una concezione del mondo. Ecco perché è richiesta osservazione e capacità di attenzione.
Le prime cose che ti possono colpire sono forse delle curiosità, ma avverti già la differenza: gli autisti dei taxi e degli autobus indossano sempre dei guanti bianchi, le donne di mezza età nel caldo afoso di agosto portano sempre mani e braccia fasciate. (Spiegazione su internet: la pelle chiara in Cina è simbolo di delicatezza e femminilità e sono moltissime le donne che, per questo motivo, si coprono dal sole per evitare di abbronzarsi. Per i cinesi l'abbronzatura, sin dai tempi dell'impero, è associata al lavoro nei campi e viene da molti disprezzata perché considerata caratteristica di un ceto inferiore).
Non occorre portarsi il pigiama da casa: ogni albergo, anche non con stelle esclusive, fornisce la vestaglia per la notte pulita ogni sera. Aggiungiamo, e questa è senz’altro una piacevole sorpresa, che sempre e ovunque, anche nei luoghi pubblici, le toilette sono frequentissime e pulitissime, e anche un po’ strane perché quasi sempre includono water e bidè (un po’ il misterioso “washlet”). E anche qui Internet ti informa che lì pulizia e igiene sono equiparate a qualità come la bellezza e l'ordine. E anche nei bagni pubblici diffusissimi in tutta la nazione, prima di scendere nella vasca da bagno ci si deve lavare accuratamente. Ma non ho fatto questa esperienza per mancanza di tempo, ma, soprattutto, perché i bagni pubblici hanno acqua termale normalmente a 40 gradi.
Poi, immediatamente, le osservazioni di ogni giorno che più ti colpiscono: come fanno ad essere così puntuali i mezzi di trasporto e non importa se treni ad alta velocità o autobus urbani? Spaccano il secondo. Per me rappresenta un mistero (pensando che anche i nostri migliori Frecciarossa i loro 5-10 minuti di ritardo, quando va bene, li fanno). Eppure, almeno per quanto riguarda le città, anche lì il traffico intenso potrebbe creare rallentamenti e ritardi. Ma questo sembra essere ininfluente. Certamente basta osservare che l’entrata-uscita dei passeggieri dai mezzi di trasporto è ordinata al punto di apparire quasi una sfilata militare. Migliaia di persone si incrociano ad agni semaforo verde a Tokyo ma miracolosamente non si scontrano.
È risaputo che nei viaggi in paesi lontani anche la gastronomia e l’alimentazione diventano scoperte ed esperienze. Come già avevo colto nella mia ricerca, mangiare il Giappone non è caro, o, meglio, può essere costoso nella scelta di rinomati ristoranti alla moda. Mi è stato riferito che un pranzo con il piatto principale di carne di manzo di Kobe può arrivare anche a 250 euro (a proposito di questa carne, c’è una leggenda che i vitelli vengono allevati con la musica di Mozart, ma sicuramene senza stress, con alimenti di qualità e addirittura massaggi). Naturalmente questa esperienza non l’abbiamo fatta, tuttavia, abbiamo mangiato sempre giapponese in ristoranti economici frequentati da impiegati in pausa a mezzogiorno e ragazzi e coppie alla sera con una spesa di circa 10-12 euro a persona. Il ristorante, di solito semplice con un servizio molto rapido e infallibile (i giapponesi sono giapponesi anche in questo, permettendo così una rapida rotazione dei clienti), si presta bene all’osservazione in particolare dei gruppi di giovani locali in “libera uscita” alla sera. Quel certo formalismo (distacco e silenzio anche nei luoghi affollati) che noti di giorno, lì sparisce del tutto e niente potrebbe distinguere essi dai nostri quanto ad allegria e cameratismo.
Una cosa mi ha particolarmente stupito: se nei supermercati i prezzi degli alimentari in genere non appaiono discostarsi troppo dai nostri, al contrario la frutta appare costosissima. Le pesche (peraltro molto belle) sono disposte ad una ad una abbellite da un cestino di carta al costo di circa 450 yen ciascuna (4 euro), e altrettanto per i meloni (2000 yen l’uno). Quando uno viene invitato a cena da noi porta qualcosa, magari una bottiglia di prosecco, per i Giapponesi ospiti a cena è usanza portare un (costosissimo) cestino di frutta, considerato un dono particolarmente apprezzato.
Nonostante tanti tentativi a differenza di mia moglie più brava di me in questo, non sono riuscito assolutamente a servirmi delle bacchette, ma devo dire che ovunque agli stranieri, se richiesto, vengono portati forchette e coltello. Ho apprezzato molto, inizialmente, la cucina giapponese, ma verso la fine i sapori mi sembravano un po’ ripetitivi, forse perché l’uso delle loro salse, in particolare quella di soia tende un po’ a standardizzare le varie scelte e non potrei dire di essere riuscito veramente ad apprezzare la cucina locale, per quanto avessi trovato precedenti giudizi entusiasti.
Visitando tanti templi, la mia attenzione è stata attratta anche dalla grande frequenza della gente che vi si reca per un gesto di devozione. In mente faccio il raffronto con le nostre chiese grandi o piccole che, a meno della presenza di celebrazioni, sono del tutto vuote, puoi trovare solo l'occasionale visita di qualche persona anziana. I templi giapponesi più celebri e importanti, quelli che i turisti visitano, sono affollatissimi e visitati ad ogni momento della giornata dalla popolazione, sia che si tratti di tempi buddisti o shintoisti, contraddistinti i primi dalla presenza di pagode, i secondi con i caratteristici portali d'ingresso, denominati “Torji”. È frequente che Torji e pagode siano presenti nello stesso luogo di culto a prova di un certo spirito sincretistico. I Giapponesi, mi è stato detto, tendono a includere, piuttosto che escludere. Ho visto una agenzia che proponeva matrimoni occidentali in chiese cristiane, matrimoni evidentemente non riservati ai pochi aderenti, per cui c'è il detto che gli abitanti qui nascono shintoisti, si sposano cristiani e muoiono buddisti. Non ci sono tuttavia celebrazioni "comunitarie". Si prega da soli e semmai ci si rivolge al sacerdote per una celebrazione privata, individuale o familiare, come, ho visto, la benedizione dell'auto nuova, o vengono commissionata a pagamento delle benedizioni per singoli o famiglie. I templi sono officiati spesso dalla stessa generazione, di padre in figlio.
Interessantissimo per comprendere meglio la religione (o le religioni?) praticate da quel popolo ho trovato le notizie del seguente sito: http://www.culturagiapponese.it/approfondimenti/6-religione-e-templi-shinto
La preghiera al tempio è contraddistinta da un preciso rituale: preceduta da un cerimoniale di purificazione (mani, braccia e collo poi esterno della bocca) presso una fontana di acqua corrente, è seguita da profondi inchini davanti alla statua del dio, offerta di qualche moneta e due battimani (forse a richiamare alla divinità l’offerta?).
Questo cerimoniale non lo sento troppo estraneo a certe nostre abitudini tradizionali entrando in chiesa anche noi ci segniamo con l'acqua benedetta ci facciamo il segno della croce e passando davanti all’altare accenniamo a una genuflessione. Solo che questi gesti religiosi sono fatti da persone di ogni età, le ragazze magari indossando il caratteristico kimono.
Ci tornerei in Giappone? Direi di sì. Se uno lo rivisita, ha modo di approfondirlo, andando e alla ricerca e alla scoperta anche di quelle bellezze naturali che sono presenti e che in un primo viaggio restano in secondo piano e magari trascurate, ma che non hanno la fama di altre località famose di cui tutti parlano, perché si è tutti presi dalla voglia di vedere il “grande”.
Girerei di località in località con i treni, esempi di efficienza, sostando con calma e gustando quel Giappone che potrebbe essere definito “minore” per noi Europei, ma che invece è il vero Giappone e non è stato ancora travolto dal gigantismo della modernità.
dott. Stefano Dal’Ara, medico di medicina generale
Questo intervento ha introdotto il Convegno sul Dolore promosso dalla sezione del Rotary Club di Valdagno (Palazzo Festari) in data 3 febbraio 2016
“Divinum est sedare dolorem". La frase viene attribuita a Galeno famoso medico dell’antichità che fu il curante di ben 3 imperatori romani Marco Aurelio, Commodo, Settimio Severo. Per gli amanti della storia siamo negli anni che vanno dal 150 al 200 d.C.
Qualche maligno potrebbe obiettare che tanto bravo non dovesse poi essere avendo curato ben 3 imperatori ma Commodo morì strangolato e di questo non si può certo incolpare il buon Galeno, gli altri 2 morirono in età per l’epoca assai avanzata, sui 60. 65 anni e lo stesso Galeno morì a 70 anni.
È cosa divina sedare il dolore, questa frase fa subito capire che già nei tempi remoti chi si adoperava per sedare, lenire il dolore godeva di un credito tale da essere addirittura avvicinato agli Dei. Il dolore è antico, nasce con l’uomo e forse soltanto nel giardino dell’Eden era sconosciuto.
Il dolore è considerato il V Parametro vitale con il respiro, il battito cardiaco, la temperatura corporea, la pressione arteriosa e può tornarci anche utile in determinate situazioni, parlo in particolare del DOLORE ACUTO, quello che dura per breve tempo e che di solito riconosce una causa ben precisa, è un campanello d’allarme che ci dice che qualche cosa nel nostro organismo non va come dovrebbe (se io metto una mano sul fuoco e non sentissi dolore dopo un po' mi ritroverei in una situazione certamente spiacevole)
Il DOLORE CRONICO, è invece quello che perdura nel tempo, più di 3 mesi secondo alcuni autori più di 6 mesi secondo altri, difficile da trattare, che persiste anche quando la causa dolorosa è cessata da tempo e che spesso necessita di un approccio multidisciplinare –do alcuni dati per inquadrare meglio il problema e da questi numeri si può già capire quale impatto sociale, economico, sanitario, emozionale, relazionale, rivesta l'argomento.
Riguarda in Italia oltre 12 milioni di persone (20% della popolazione) altre statistiche parlano di 15 milioni,
3 anziani su 4 soffrono di dolore cronico, ricordiamoci che nel 2030 gli anziani rappresenteranno in Italia il 26,5% della popolazione.
18% dei pazienti con dolore cronico ammette di sentirsi abbandonato e di aver perso il proprio ruolo in famiglia (anticamera della depressione reattiva) non è 1 caso che il 22%, dato per difetto a mio avviso, dei pazienti con dolore cronico siano anche depressione.
Indagine ISTAT il 17% dei pazienti con dolore cronico ha riferito di aver perso il lavoro,
il 20%ha cambiato lavoro,
il 18% ha avuto un cambio di responsabilità con ridimensionamento nella propria mansione.
Ampliando un po’ lo sguardo, in Europa le giornate di lavoro perse in 1 anno a causa del dolore cronico, hanno un costo di quasi 300 miliardi di euro.
Insomma, il dolore cronico provoca modifiche economiche, affettive, comportamentali, sociali, economiche a volte devastanti, tanto che oggi I DOLORE CRONICO è, esso stesso considerato, MALATTIA.
Cosa non di poco conto perché fino a non molti anni fa il dolore era considerato semplicemente un sintomo di una determinata malattia o processo morboso. Malattia quindi, che spesso non viene adeguatamente tenuta in considerazione. L'OMS considera come parametro di AVANZAMENTO SOCIALE di una Nazione il consumo di morfina usato con scopi terapeutici in quella nazione.
Se prendiamo i paesi europei ritenuti “più avanzati” (Inghilterra, Francia, Germania, Spagna, Paesi nordici) l'Italia è purtroppo all'ultimo posto, per consumo di oppioidi forti mentre è al primo posto per consumo di FANS (farmaci anti infiammatori che non appartengono alla categoria dei cortisonici), farmaci assai utili ma che possono avere molti effetti collaterali se usati per tempo e dosaggio inappropriati ( possono risultare molto dannosi per il sistema gastrointestinale, cardiaco, renale.). Se io vi dico diclofenac, ibuprofene, chetoprofene, piroxicam forse non dico molto ma se dico Voltaren, Oki, Brufen, Feldene, sono certo che questi nomi alla gran parte dei presenti sono noti.
Perché questo scarso uso di oppioidi forti? Diciamo la verità, gran parte della colpa è dei medici, seppur con qualche attenuante. In Italia per troppo tempo abbiamo pagato l’ineluttabilità e talvolta l'idealizzazione del dolore per motivi storici, antropologici e anche religiosi (flagellanti, cilicio, partorirai con dolore, dolore come espiazione di colpe proprie od altrui), anche se fin dai tempi più antichi menti aperte, appartenenti alla Chiesa forse non la pensavano in questo modo. Riferisco una frase di Sant’Agostino Vescovo d’Ippona (400 d.C.) uno dei” Padri della Chiesa,” forse il più noto insieme a Sant’Ambrogio di cui fu peraltro discepolo, la frase cheho trovato leggendo un interessantissimo lavoro sul dolore, del Dott Mari e collaboratori afferma.
”Si possono accettare molti dolori, ma nessun dolore può essere amato”. Nessun dolore può essere amato quindi, e data la complessità e la rilevanza del tema dolore, il LEGISLATORE, (qualche volta anche i legislatori pensano) ha ritenuto necessario normare quella che potremo definire la sfida culturale e sanitaria al dolore stesso , attraverso la Legge 38 del marzo 2010. Cosa dice in pratica questa Legge, peraltro poco conosciuta ai più?
Con questa legge viene sancito il DOVERE ETICO di offrire al malato il DIRITTO di accedere alla rete delle cure Palliative e della TERAPIA DEL DOLORE
Art 1 “la presente Legge tutela il DIRITTO del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore.
È tutelato e garantito in particolare l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del malato nell'ambito dei LEA (livelli essenziali di assistenza, sono le prestazioni garantite al cittadino dal sistema sanitario nazionale) al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell'autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell'accesso all'assistenza, la qualità delle cure la loro appropriatezza.
Le strutture sanitarie che erogano cure palliative e terapia del dolore assicurano un programma di cura individuale per il malato e la sua famiglia nel rispetto:
a) tutela della dignità e autonomia del malato senza alcuna discriminazione;
b) tutela e promozione della vita fino al suo termine;
c) adeguato sostegno sanitario e socio assistenziale della persona malata e della famiglia.
Nelle strutture sanitarie, nella sezione medico infermieristica, l’obbligo di riportare all'interno della cartella clinica la rilevazione del dolore, farmaci usati, risultati conseguiti
Ottima legge applicazione forse non ancora soddisfacente.
QUALE RUOLO per i Medici di Medicina Generale? Riporto uno studio FINLANDESE, che a mio avviso potrebbe ben calarsi anche nelle nostre realtà: su 5000 pazienti che afferivano agli ambulatori del medico di medicina generale, il 40% delle visite era dovuto al dolore . 1 su 5 con dolore cronico (numeri importanti).
I MMG hanno responsabilità e ruolo importanti perché sono chiamati a dare una prima risposta diagnostica terapeutica al dolore (sono nodi di rete) e se la risposta è insoddisfacente possono avvalersi di specialisti in altre discipline ed indirizzare il paziente presso strutture ritenute più idonee e deputate al trattamento del dolore (Dott Mariot); vedi centri terapia del dolore Regione Veneto. È giusto in questa sede ricordare anche l’ottimo lavoro svolto dai Medici Palliativisti che operano anche a domicilio nel nostro territorio Il dott. Manno e il Dott. Riolfi.
Come viene definito il dolore?
Mi piace questa semplice definizione " sensazione SOGGETTIVA ed ESPERIENZA PSICOFISICA estremamente spiacevole, che segnala all'individuo un processo che sta danneggiando tessuti o organi del suo corpo". Quindi dolore che è influenzato da fattori emotivi, culturali, affettivi che colpisce il FISICO ma anche l'ANIMA del paziente. Il dolore fa di tutto per “DISARMARMI LA VITA”, come recita un bellissimo testo di un noto cantautore (Roberto Vecchioni: “ho conosciuto il dolore”)
Da quanto fin qui ho esposto il dolore ha, quindi, come caratteristica, la MULTIDIMENSIONALITA’ e NON PUO’ ESSERE CONSIDERATO SOLTANTO COME UN SISTEMA DI SEMPLICI TRASMISSIONI SENSORIALI.
Dolore che a volte è anche ESPERIENZA DIFFICILE DA COMUNICARE, vuoi perché medico e paziente spesso parlano linguaggi diversi vuoi perché i linguaggi cambiano e di per sè l'esperienza dolorosa è esperienza soggettiva vissuta diversamente dai singoli individui.
È possibile in qualche modo valutarlo?
Opportunamente ci possiamo servire delle SCALE DI VALUTAZIONE del dolore, in base a queste scale, (ce ne sono moltissime) ma io penso che si debbano usare le scale facilmente applicabili, intuitive, come la scala numerica che preferisco. Le più note sono le scale unidimensionali che valutano un solo parametro, l’intensità’ del dolore.
1 - NRS: scala numerica (fatto 0 nessun dolore e 10 il peggior dolore possibile, immaginabile, il paziente viene invitato ad esprimere con un numero la sensazione dolorosa di quel preciso momento) in base a questa scala il dolore viene” etichettato “come dolore lieve (1. 4) lieve, moderato (5. 6), severo ( 7. 10).
2)VAS scala analogico. visiva i medici più attrezzati hanno un regolo diviso in millimetri: da 0 nessun dolore a 100 mm massimo dolore possibile) il paziente ferma il cursore nel punto più vicino o lontano dal punto 0-100
3) In Pediatria si utilizza una scala rappresentata da 6 faccette il primo volto sorridente e via via volti tristi e assai tristi con ultimo volto tristissimo (lacrimoni agli occhi) massimo del dolore.
La PAINAD (Scala Multidimensionale) si usa con pazienti non collaboranti (es. affetti da demenza) e utilizza la semeiotica del dolore inserendo 5 parametri per ognuno dei quali è stabilito 1 punteggio
Il medico o l’infermiere osservano il paziente e in base ai parametri di riferimento: respirazione, vocalizzazione, espressione del volto, linguaggio del corpo, conso labilità del paziente) stilano un punteggio:
da 0 a 1 dolore assente, da 2 a 4 dolore lieve, da 5 a 7 dolore moderato, da 8 a 10 dolore severo
Le scale sono utili perché possiamo renderci conto se la terapia che stiamo facendo ha un risultato o meno e anche perché l'OMS consiglia anche quali farmaci usare per i vari gradi di dolore cronico. Ma, a dirla tutta, come dovrebbe essere sempre in medicina, la terapia dovrebbe essere cucita addosso ad ogni singolo paziente in altri termini personalizzata.
Termino questo mia breve introduzione, che penso abbia dato un'idea della complessità del problema, con una riflessione. Lo sappiamo tutti che curare non può voler dire solo prescrivere dei farmaci, lo sappiamo tutti ma spesso, me compreso, ce ne dimentichiamo. Prendersi cura del paziente è un’altra cosa “rancurare” sento ogni tanto dire da qualche mio paziente che “gha rancura” il genitore in difficoltà e in questo rancurare spesso c’è tanto amore e un intero universo di sentimenti positivi.
Questo per dire che è necessaria una maggiore alleanza fra medico e paziente e non solo, fra paziente e tutti gli operatori che in qualsivoglia modo si occupano di problematiche sanitarie e socio assistenziali, perché dietro ad ogni paziente ci sono storie, sofferenze, che vanno necessariamente ascoltate, comprese e obbligatoriamente rispettate. Solo cosi potremo dire come operatori sanitari di aver saputo ben “rancurare” i nostri pazienti
Stefano Dall’Ara
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