È possibile parlare di cose “difficili” con parole “semplici”? Ecco la domanda da cui sono partito nel realizzare la mia ultima opera, che esce ora nelle nostre librerie, dal titolo: “Lettere a Giulio”(Mediafactory 2023 256 pagine € 15).
Ha un titolo un po’ insolito. Riguarda l’educazione dei preadolescenti ( secondo la classificazione ufficiale ma è ancora valida?) cioè degli alunni che frequentano le medie, ma non è un saggio pedagogico; è un “epistolario”: insieme di 37 lettere che con stile colloquiale ho (virtualmente) inviato a un ragazzino che da pochi giorni è entrato alla scuola media probabilmente guardando con un po’ di malinconia alle scuole elementari (va be’ oggi si usano altre denominazioni ma io rimango sempre a quelle da me sempre utilizzate) e così inizia un percorso accompagnato da tante domande, dal bisogno di risposte e da scelte nelle quali conterà moltissimo l’aiuto di genitori intelligenti e di qualche bravo insegnante. Questo inevitabile passaggio tutti i Giulio dovranno attraversarlo in un mondo maledettamente complicato, in continua trasformazione e in un groviglio di messaggi contraddittori.
Come li possiamo aiutare? Ecco la risposta: attraverso la riscoperta della parola all’interno di un dialogo sincero, se possibile affettuoso, con indicazioni di visibili e percorribili tracce. Questi “segnali stradali” non sono teorie e concetti, ma anche analisi di fatti quotidiani vissuti, cioè “esperienze”, quelle che facciamo tutti i giorni.
Tracce indicazioni superate, di altri tempi? Ecco la domanda che mi pongo, ovviamente io rispondo di no altrimenti non avrei scritto il libro, ma genitori, insegnanti di adesso sono d’accordo? Eventualmente cosa propongono?
È bello scoprire che alla fine il “parlare dialogando” è uno strumento educativo molto efficace soprattutto quando si propone di guidare figli e alunni a "imparare" dando valore a quello che capita tutti i giorni con lo sviluppo della capacità di riflessione.
Questo libro è in vendita (i libri gratuiti non sono mai letti) perché il costo, anche se modesto come qui, chiede che il libro sia “scelto” e quindi ci sia una motivazione (non solo curiosità) a leggerlo.
Essendo un insieme di lettere non richiede una lettura dalla prima all’ultima pagina, può essere benissimo e con la stessa utilità sfogliato per interesse, anche saltando da una lettera all’altra, ma ha un suo percorso che è reso chiaro dall’organizzazione dell’indice: Strumenti, Essere con se stessi, Essere con gli altri, Agire, Lasciare tracce. Se ci pensate è il percorso che tutti, anche da anziani, come lo è ora l’autore, dobbiamo proporci.
Questo mio lavoro è un ricordo e un rivivere anche la mia personale esperienza dell’incontro e della relazione che ho avuto con migliaia di studenti a partire dalla mia primissima esperienza di insegnante di italiano storia e geografia nella classe 1F e 3F (classe femminile) alla Lampertico nell’anno scolastico ’69-70 fino all’ultimo anno come Dirigente alla Garbin nell’anno 2000-2001. Beh, almeno oggi godo del titolo (ufficiale e riconosciuto) di “Dirigente in quiescenza”, ma tutti i miei colleghi e alunni ricordano benissimo quanta fatica facevo a restare chiuso in presidenza e, appena possibile, cioè quasi sempre, scappavo in giro nelle classi.
ALLA RICERCA DEL BENE (E DI PERCHÉ FARLO)[1]
Come per la parola male, anche la parola bene può essere utilizzata in contesti che le conferiscono un valore diverso. Posso dire: mi sento bene; gli affari mi vanno bene; sto bene ...
Pure qui osserviamo che la parola bene viene utilizzata come avverbio. E se la usassimo come sostantivo?
“Fare bene” è chiaro nel suo significato, anche se la frase deve essere completata da un oggetto (fare beni i compiti è intuitivo. Fare bene a scuola non dice molto, è generico). In questo caso si dice che bisogna dare concretezza al discorso. “Fare bene+complemento oggetto di solito comporta dei vantaggi: se faccio bene il mio lavoro sono stimato, posso avere degli avanzamenti... certamente ciò richiede impegno, capacità, buona volontà; se poi uno ha una spinta, anche le difficoltà possono essere uno stimolo...
“Fare del bene” non è così facile. Indica un insieme di azioni (qualche volta nelle epigrafi è scritto: “Non fiori ma opere di bene”) che immediatamente non sembrano attrarre.
Comprende nella sua stessa parola il sacrificarsi, non pensare solo a se stessi ma dedicare tempo, energia, anche risorse personali ed economiche per gli altri. Mi dedico agli altri ma sottraggo qualcosa a me stesso. Soprattutto, e qui sta la differenza con l’espressione fare bene, non sembra comportare vantaggi. C'è un detto che riassume: “fare del bene non paga”.
Non è detto ad esempio che chi s’impegna a fare azioni di bene sia capito e abbia l’approvazione dal prossimo (magari solo al funerale le sue buone azioni sono ricordate, ma questo vale per tutti i defunti, come si dice: de mortuis nisi bonum).
Addirittura fare una buona azione qualche volta può essere è pericoloso come è successo recentemente a una guida alpina francese che rischia 5 anni di carcere per avere salvato da sicura morte una famiglia di profughi sulle montagne innevate. È un caso, e non è raro, in cui nasce un conflitto tra la legge e la coscienza.
La domanda che potrebbe venire spontanea è perciò questa: d’accordo, io non farei del male ad alcuno, ma perché devo preoccuparmi di fare il bene? Devo pensare a me stesso che di preoccupazione ne ho tante... Ma, soprattutto, se sto nel mio guscio sto bene. Sto tranquillo senza essere toccato da tanti problemi e sofferenza che stanno nel mondo vicino e lontano da me... alla fine, cattivi, buoni indifferenti è sempre la stessa storia, sempre là si va a finire... che differenza c’è?
Ecco quindi una bella domanda: perché fare il bene? e, poi, che cosa è il bene?
Quante volte i genitori falliscono del tutto nei confronti dei figli perché hanno agito, sbagliando, per il loro bene! Di solito la risposta non è difficile: hanno operato in un certo modo perché hanno imposto una loro visione di quello che doveva essere il bene dal loro punto di vista per i figli! Ma non succede solo in famiglia, tutte le dittature hanno questo in comune: che ciò che è bene secondo il capo è il bene di tutti coloro sui quali essi esercitano il loro controllo.
Cosa è il bene?
Sembrerebbe una domanda facilina, ma poi quando si vanno a verificare le risposte, emergono tante interpretazioni. Se il bene lo vediamo come il contrario di male (di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti), possiamo concludere che se il male produce sofferenza in noi stessi, negli altri, nell’ambiente… all’opposto potremmo dire che il bene e tutto ciò che produce invece felicità.
E siccome felicità è una parola molto generica molto vaga potremmo dire che felicità vuol dire star bene, facendo star bene gli altri.
È soprattutto questa la traccia che seguiremo in questo capitolo.
Spesso il concetto di bene applicato all’agire di una persona si identifica con quello di "azione buona", come nell'espressione "fare del bene", equivalente a "compiere buone azioni", cioè azioni che rispondano a regole morali che abbiamo fatto nostri per gli insegnamenti ricevuti e diventati parte del nostro pensiero, del nostro intimo, o che accettiamo come leggi, regole da osservare.
La dottrina, che si propone di stabilire criteri razionali per esprimere un giudizio di valore riguardo l'agire umano, è l'etica, ovvero la morale.
Riprendiamo il nostro ragionamento. Da un punto di vista generale (ma anche generico), col termine di "bene" si indica tutto ciò che agli individui appare desiderabile e tale che possa essere considerato come fine ultimo da raggiungere nella propria esistenza.
La più scontata potrebbe essere: è bene tutto ciò che appare desiderabile come poter acquistare un oggetto molto desiderato.
È bene tutto ciò che mi piace e che desidero, come il male è tutto ciò che voglio evitare. Se diventare ricco è un bene che io voglio raggiungere, diventare “tanto” ricco può essere la scopo della mia vita è questo per me potrebbe essere la felicità.
In questo caso felicità sarebbe l’aver raggiunto l’appaagamento di tutti i miei desideri. Ma siccome noi non ci accontentiamo mai e, soddisfatti i nostri desideri, ne nascono degli altri, molto probabilmente la felicità non la raggiungeremo mai.
Allora precisiamo la domanda, non cosa è il bene (generico: per un terrorista potrebbe significare uccidere una persona solo perché è di una religione diversa): fare del bene vuol dire produrre, creare qualcosa che ha certi effetti al di fuori di me, e questi effetti sono positivi, fanno star bene altre persone migliorano quello che la mia azione va a toccare.
Poter acquistare un oggetto desiderato può avere un effetto in me, ma non produce modificazioni all'esterno, da questo punto di vista non ci interessa per il momento.
Fare bene “fare il bene”.
Non è un gioco di parole. Ci sono persone che s’impegnano non per “fare bene” tutto ciò che si fa normalmente, il che di solito comporta anche dei vantaggi, ma “far il bene” vuol dire fare fatica come ogni volta che ci si prende un impegno. Ha un costo, se non altro perché si va contro la corrente che oggi è predominante nel senso comune.
Ci sono persone che sembrano pre-disposte a fare del bene, cioè a fare buone azioni, sono sempre pronte a buttarsi appena vedono una necessità. Insomma per loro fare il bene è facile. Addirittura ci sono persone che per gli altri, per fare loro del bene mettono a rischio la loro vita. Sono le persone che poi sono indicate come “eroi” ma, soprattutto perché sono uniche, le loro azioni sono eccezionali.
Ci sono poi potremmo dire delle categorie che, nell’opinione comune, sembrano designate a fare il bene, ad esempio ci si attende che i preti siano sempre pronti a farsi carico dei problemi della gente, se non altro per ascoltarla (azione buona che spesso è anche un’azione difficile da mettere in pratica!) e, quindi, quando si scopre che un prete si comporta male, oppure anche come una persona qualsiasi, le sue azioni giudicate non buone hanno una risonanza negativa maggiore.
Nell’opinione comune c’è il sentimento che oggi ci sia al mondo molto più male che bene. La conseguenza è che la gente è triste, pessimista, crede che le cose vadano sempre peggio… ma soprattutto scoraggiata: “Perché devo impegnarmi quando tutto va a rotoli, che speranza ho che il mio intervento possa alla fine servire?”
Ma è proprio così? Bisogna guardare alla realtà di ogni giorno con intelligenza. Riflettendo, non possiamo dirlo perché mentre il male fa sempre notizia, come una tempesta che si abbatte, fa danni e quindi finisce nei giornali e se ne parla a lungo, il bene scorre tranquillo come un ruscello che defluisce appena percettibile nell’alveo di un torrente che non si prosciuga mai e perciò fa notizia solo per i poeti.
Essere buoni conviene? Sia ben chiaro sul non fare il male siamo tutti d’accordo, ma sulla necessità, anzi sull’obbligo per un uomo di fare il bene siamo sicuri che siamo ci troveremmo tutti a concordare?
“Fare del bene” non fa (automaticamente) “stare bene”[2]
Siccome tutti almeno una volta abbiamo fatto delle buone azioni, come le valutiamo dopo? Ci sentiamo meglio? Forse se abbiamo il riscontro, la riconoscenza della persona beneficata. Succede però che dopo aver fatto una buona azione verso un compagno questi la dimentichi subito e questo mi fa soffrire tanto che potrebbe succedere che quasi quasi mi sono pentito…non se lo meritava che io…
Per fare del bene per fare il ben, cioè per fare azioni di bene, è necessaria non solo la generica e occasionale volontà, il momento in cui mi sento buono perché sperimento un particolare momento di “esaltazione” perché le cose mi vanno bene, o una attesa di qualche forma di ricompensa, ma una spinta interiore che dia la forza, la costanza e soprattutto il coraggio dell’impegno. Diciamo quindi che “fare buone azioni richiede fatica. La si supera e la si accetta solo se si ha una interiore motivazione.
Partiamo da questa convinzione: l’uomo per la sua natura è predisposto a fare il bene. Quasi sempre, salvo particolari eccezioni, se è libero da indottrinamenti, se è libero, sa riconoscere se una azione e buona. Però nella vita di ogni girono succede qualcosa d’altro.
Ovidio, un poeta latino, diceva una frase che è stata ripresa molte volte in molti scrittori e pensatori con termini molto simili: “video bona, proboque, peiora sequor”, cioè io rivedo una mia azione, con la ragione la giudico come buona, ma non solo non l’ho fatta, anzi purtroppo spesso faccio l’azione opposta.
Allora qui nasce la grande questione: perché questa opposizione tra il giudicare e il fare?
Perché l’uomo pur conoscendo il bene molto spesso non lo compie? E non parliamo delle persone malvage, quelle che, a giudicarle da fuori, sembra veramente fare solo gravi azioni cattive.
Il “fare del male” (è una questione a cui si sono dedicati tanti saggi, filosofi, uomini di pensiero a partire, secondo Platone, il primo vero grande filosofo greco Socrate. Ed è una domanda che torna sempre anche oggi quando noi assistiamo a fatti gravi di grandi sofferenze che vengono fatte da uomini su altri uomini, senza pietà, compassione, ma anche con il gusto di fare il male! Ne abbiamo fatto qualche cenno nei capitoli precedenti.
Ma la stessa domanda la si può porre a chi abbia fatto una buona azione, magari in maniera eroica.
Noi cerchiamo invece delle risposte semplici (cioè non teoriche, astratte) e allora forse la strada da percorrere è un’altra: interrogare una persona che ha compiuto, un’azione cattiva (non è facile, ma immaginiamo che una autorità, un genitore, un insegnante, un giudica potrebbe farlo…) oppure un gesto particolarmente bello e chiederle perché l’abbia fatta (ricerca della motivazione).
Come capita negli interrogatori, l’indagato ha la facoltà di non rispondere, però potrebbe anche dare delle risposte giustificando (motivando) il suo comportamento. Perché ha fatto quella (buona/cattiva) azione? Che cosa lo ha spinto? Cosa si aspettava? Intanto chiedere fino a che punto fosse consapevole (l’ha fatto istintivamente o ci ha riflettuto?) o quali risultati si aspettasse. Potrebbe rispondere che non lo sapeva (molto difficile!) che non ci ha pensato o tentare di dare altre risposte...
Una azione buona lo è sempre?
Dipende, comunque non allo stesso modo.
Prendiamo come esempio un’azione che senz’altro viene considerata “buona” e analizziamola in dettaglio.
Per strada mi si avvicina un mendicante che mi chiede l’elemosina. Come mi comporto?
- Potrei fingere di non vederlo e tirare dritto.
- Posso dargli una moneta e me lo levo d’intorno.
Fino a questo punto la mia risposta alla sua richiesta di aiuto come la giudico? Né buona né cattiva, come qualità (cioè il valore) dell’azione è assolutamente inesistente.
- Posso sentire un sentimento di compassione e dargli i soldi che ho in tasca (tanto adesso non mi servono…).
La mia azione è diventata buona perché ho provato un sentimento e ciò che io do nasce da una spinta di vicinanza. Questo è qualcosa che spontaneamente o per abitudine mi riesce abbastanza facile.
- Potrei però dargli i soldi che ho in tasca e così rinuncio a quel gadget che pensavo di comperarmi. Qui si capisce che la buona azione ha fatto un passo avanti come qualità.
- Addirittura ciò non potrebbe bastarmi e allora inizio un dialogo con lui, chiedo notizie perché è così caduto in povertà da essere costretto a chiedere l’elemosina. Posso chiedere se sono in grado di fare qualcosa, interessare un ente assistenziale...
Se uno ha letto il Vangelo trova nella parabola del Buon Samaritano l’ideale di una azione buona che esprime il massima della qualità.
È chiaro che la qualità della mia azione e quindi il valore della mia buona azione è e molto diversa. In fondo dare una moneta non costa molto, farsi carico di un problema di un estraneo richiede molto di più.
Una buona azione non è tale se sono obbligato a farla.
Cioè deve essere un’azione libera.
Immaginiamo (ma immaginiamo soltanto perché non capiterà mai) che una mamma dica al bambino: “una parte della somma di denaro che ti ha regalato la nonna lo destiniamo alla fondazione per la ricerca sul cancro”. Il bambino lo fa (lo deve fare per non dare un dispiacere alla mamma) ma con quale convinzione? È una idea che egli condivide oppure acconsente a quello che la mamma vorrebbe facesse?
Di questa buona azione il bambino non ha nessun merito perché qualche altro l’ha fatta per lui (e in realtà non ha merito neppure la mamma perché i soldi destinata alla buona azione non ce li ha messi lei!)
Posso aggiungere perciò che la prima qualità di una buona azione è libera, ma soprattutto gratuita. Il mio più caro amici mi chiede di passargli i compiti per casa e io lo faccio volentieri perché so che poi lui a sua volta mi farà usare la sua collezione di video giochi.
Mi aspetto perciò qualcosa che ricambi l’essere stato utile per lui. Il compagno più antipatico della classe non farà mai questa richiesta, ma se capitasse, come mi comporterei?
Fare del bene non vuol dire fare solo buone azioni
Fare del bene non vuol dire fare solo buone azioni.
Noi pensiamo alle azioni come gesti che vengono fatti e che possono essere visti e controllati per cui è abbastanza facile di solito dare un giudizio cioè se vedo un’azione fatta da una persona è facile che la giudichi buona o cattiva.
Ma il mio giudizio è sempre giusto? Vediamo un po’: io vedo una persona che fa una importante somma di denaro a un povero. Considero quella persona un “buono”? Probabilmente sì. Oggi però vediamo che le buone azioni sono anche criticate perché si pensa che i risultati non siano buoni. Noi pensiamo (e magari abbiamo ragione) che il gesto del ricco di dare l’elemosina sia una forma di ostentazione della propria ricchezza, magari perché poi che se ne parli in giro... E poi magari quella persona non avrebbe bisogno di una elemosina ma di un aiuto a trovare un lavoro e che quindi quelli siano soldi buttati... ecc.
Salvare gli emigranti in mare va bene ma poi chi li mantiene? Quando si è un po’ scombussolato in mezzo alla grande babele delle opinioni contrastanti circa il valore di una azione io adotterei questo tipo di ragionamento: se io fossi in grado e fossi richiesto di fare una azione, come mi comporterei? Avendone la possibilità avrei fatto quella scelta o un’altra?
Da qui viene fuori una regola. La buona azione quando è fatta come scelta e impegno non come un fatto occasionale richiede un terreno da cui essa proviene, una sorgente da cui sgorga, terreno è un albero che permetta ai frutti di maturare.
La mia azione è buona se io sono buono.
Insomma, non è che uno svegliandosi all’improvviso al mattino si mette alla ricerca di fare la buona azione nella giornata. L’occasione per fare buone azioni di solito non sono ricercate ma si presentano. Bisogna perciò avere occhi per vedere le occasioni e ciò richiede pertanto un certo allenamento, attenzione e, soprattutto, predisposizione.
Per fare buone azioni occorre un animo buono insomma essere buoni, capaci di guardare attorno a se con attenzione e soprattutto con amore per le persone, per la natura per le cose. Ogni domenica mattina le vie centrali della mia città è piena di sporcizia di cicche e di rifiuti anche se non mancano i cestini raccogli rifiuti. Cosa mi fa pensare questo?
Da ciò che conclusioni traggo? Possiamo usare questa metafora
Le buone azioni sono come dei frutti attaccati a un albero, quando sono staccati al massimo sono buoni da vendere al mercato, ma se rimangono attaccati possono crescere maturare, migliorare perché ricevono linfa e nutrimento dall’albero, il quale a sua volta è ben impiantato in un terreno adatto.
Quindi con la metafora dell’albero e del frutto arriviamo a definire che una buona azione non va considerata isolata ma acquista valore vista come prodotto di una persona. Dare una moneta a un povero da parte di un ricco che ha il portafoglio pieno di banconote è certamente una buona azione in sé ma se la moneta è il sacrificio di una rinuncia, il valore ha ben altro peso.
Perciò le buone azioni sono frutto di una educazione dove famiglia, scuola, buoni esempi fin da quando si è piccoli ha la sua importanza
Non si è (quasi mai) buoni da soli
Cambia molto se una buona azione da isolata diventa progetto. Chiariamo: una buona azione resta sempre una buona azione, almeno se la di è fatta con animo sincero, ma, ahimè, ha l’inconveniente che di solito serve a poco. C’è il rischio che diventi solo un bella cosa ma che per nulla cambi la realtà, in fondo un’azione che nessuno pensa di ricordare.
La persona che vuole fare del bene (lasciamo perdere ora il termine buone azioni, se no si pensa che siamo di fronte al bravo boy scout che deve registrare sul diario la buona azione quotidiana, ci siamo capiti) scopre che non si è (quasi mai) buoni da soli, anzi addirittura è molto difficile (sarebbe però esagerato affermare impossibile), esserlo.
Scopre cioè che non basta avere un certo comportamento verso se stesso e verso gli altri, un certo modo di vedere la realtà e ispirarsi nelle proprie azioni con coerenza con dei valori che lui ritiene ispiratori. Ma da qui discende anche un compito: che è importante fare diventare buoni, cioè impegnarsi perché viviamo in una comunità, nessun uomo è una isola.
In fondo vale il principio che si sconfigge il male solo sostituendolo con il bene.
L’uomo buono da solo può essere un eroe (o un martire) ma, salvo casi eccezionali che si presentano imprevisti, non è questo a cui siamo chiamati. Siamo chiamati a lavorare assieme per costruire il bene, diciamolo con parole piatte: sostituire il male con il bene.
I personaggi che oggi ricordiamo nella storia (non importa se buoni o cattivi) non lo sono per quello che sono stati ma per quello che hanno costruito (il bene e, purtroppo, anche il male) e che hanno lasciato dopo di se. E sempre in qualche modo hanno costruito assieme.
Quando si scopre questo può nascere un progetto: una costruzione lunga, faticosa, impegnativa, ma appassionante, ma da fare insieme a tanti che condividono valori comuni, la stessa visione del futuro e mettono insieme le comuni risorse.
Ma qui entriamo in un campo nuovo a cui magari potremo dedicare un altro percorso di “Appunti”.
[1] Nota preliminare. Richiamo qui quanto già espresso precedentemente: quando noi parliamo qui di bene o di male non intendiamo di fare un discorso teorico, filosofico, ma molto concretamente di azioni che per il fatto di essere compiute comportano un giudizio etico: cioè sono azioni buone, cattive o indifferenti a seconda degli effetti che producono.
[2] E, purtroppo, non è detto che uno che abbia fatto del male ad altri, poi si senta profondamente umiliato e interiormente sofferente!
3 Ma perché (qualche volta, spesso, sempre, dipende…) si è cattivi?
Abbiamo deciso che gli animali non sono cattivi, anche se fanno del male seguono la loro natura, mentre l’uomo si rivela cattivo quando volontariamente e coscientemente produce del mare attorno a sé.
Ma perché l’uomo è cattivo? Ecco una bella domanda a cui da migliaia di anni di uomini provano a darsi una risposta e, probabilmente, non ci sono ancora riusciti.
È una domanda che si sono già poste antiche civiltà di cultura, ad esempio identificando l’origine del male nel mito immaginando come due dei, uno del bene e uno del male, che si fronteggiano si combattono. Ora vince l’uno ora vince l’altro.
Il discorso dei due principi che sono presenti nell’uomo del bene del male lo troviamo rappresentato in un famoso romanzo scritto da Robert Luis Stevenson nel 1886: “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, uno dei grandi classici della letteratura fantastica. Nel romanzo la stessa persona può essere il dottor Jekyll oppure il signor Hyde (il malvagio assoluto). Ma passare dall’una all’altra natura dipende da un filtro che il dottor Jekyll ha creato.
Il racconto è una parabola del Male, emerge infatti che nell’essere umano vi sono due differenti nature, due tendenze comportamentali (o semplicemente personalità), una rivolta verso il Bene, l'altra si rivolge al Male assoluto, ed esse continuamente sono in contrasto fra di loro, con l’obiettivo di prendere il dominio assoluto sull’individuo. Vediamo che l’autore è affascinato dalla presenza del male e dal fatto che l’animo umano talvolta è in confusione proprio in questo campo: vorrebbe il bene (che sa bene cosa è) ma poi alla fine si trova a scegliere il male...
E, infatti, noi, per essere talvolta un po’ (senza esagerare) dottor Jekyll e mister Hyde, non abbiamo bisogno di filtri.
E se provassimo a riflettere su questo argomento per arrivare capire qualcosa di più su chi siamo noi come uomini?
Una classe di scuola visita un castello medievale ben conservato, dopo aver visitato tutti i locali tutti gli spazi giunge alla prigione e alla sala della tortura, dove sono ancora esposti alcuni strumenti che nel passato, purtroppo, hanno fatto il loro servizio. La guida di descrivere impressionando particolarmente i ragazzi. “Vedete, dice la guida, a quel tempo il primo obiettivo non era quello di uccidere, che quasi sempre seguiva, ma era quello di fare soffrire”.
Ecco questa frase della guida può essere riportata in tutti i tempi della storia dell’umanità. Non ci sono state guerre o conflitti, o dittature nei quali la malvagità dell’uomo in guerra non abbia raggiunto vette incredibili. L’uomo non uccide soltanto come gli animali con una motivazione magari falsa, ma prova anche un gusto e una tendenza ad essere feroce, a fare soffrire. Molte volte capita, ma non è una loro colpa perché non ne sono consapevoli, che persino i bambini con i coetanei riescano ad essere molto crudeli, magari con le offese e poi quante volte i bambini cercano di fare del male anche ai fratellini perché soffrono di crisi di gelosia in quanto pensano che il fratellino porti via a loro l’attenzione e l’affetto dei genitori. Seguono un po’ il loro istinto, per cui è compito dell’adulto portarli a capire che non si fa del male all’altro e che l’affetto e l’attenzione hanno molti modi di esprimersi e, pertanto, il bambini più piccolo ha più bisogno di attenzioni.
Però non è sempre così, a complicare la cosa poi troviamo, sempre nella storia, persone che per fare del bene agli altri hanno sacrificato tutto di se stessi, talvolta anche la vita. E, allora, come la mettiamo? Qual è il vero uomo? Quello che uccide o quello che salva la vita magari a costo della propria?
Prendiamo qualsiasi bambino molto piccolo, anche si combina le marachelle, anche se qualche volta si mostra crudele, non è certo un bambino cattivo, per lo meno non lo fa con intenzione di essere crudele o cattivo. Ma, una volta cresciuto, potrebbe diventare una persona profondamente malvagia. Come mai?
Perché l’uomo, o almeno quell’uomo (non bisogna mai generalizzare!) è cattivo? Ve lo siete mai chiesto? Oltretutto l’uomo non fa del male solo agli altri, anche del male se stesso, ad esempio distruggendo e rovinando l’ambiente e creando condizioni di vita sempre più difficili anche per se stesso. E nonostante oggi siamo a conoscenza delle leggi che regolano la vita sulla terra tuttavia l’uomo, pur essendo le consapevoli dei pericoli, continua per la propria strada, nonostante che la conoscenza, l’intelligenza, la ragione dimostrino chiaramente quale sarebbe la strada da seguire. Peggio ancora, talvolta le capacità e le conoscenze che l’uomo possiede sono utilizzate per raggiungere delle vette di malvagità che nessuno avrebbe pensato possibili.
Nel frattempo siamo tutti convinti che ciò che facciamo è male?
Offendere un compagno in teoria sappiamo che è male (perché lo fa soffrire) ma “in pratica” se lo vogliamo prendere in giro, non stiamo tanto a pensarci su. È abbastanza istintivo fare questa non bella azione e poi, di solito, non riflettere se la nostra azione ha avuto delle conseguenze.
Viceversa, se vogliamo fare una buona azione, qualche volta vorremmo essere lasciati in pace e pensare che siano gli altri a preoccuparsi, come nel caso se ci viene chiesto di impegnarci in una raccolta di offerte per qualche buona causa.
Siccome questa è una esperienza che facciamo tutti diciamo che è più facile fare del male piuttosto che operare per il bene? Fare del bene richiede un certo impegno, fare del male basta solo lasciarsi andare.
Ma allora “per la nostra costituzione o, se vogliamo, per la nostra natura, noi siamo “cattivi”? E, soprattutto con l’avanzare delle conoscenze o della civiltà o della cultura, siamo diventati più buoni? Questa è una questione su cui tanti hanno discusso e forse si può sempre proporla di nuovo per vedere come la pensiamo.
Alcuni dicono che l’uomo per natura sarebbe buono ma l’ambiente, la società lo corrompono e lo rendono cattivo. Ma se l’ambiente è composto da uomini naturalmente buoni (singolarmente) come mai quando sono insieme e formano una società questa diventa capace di generare cattiveria? Perché succede che magari in un gruppo o in mezzo a una folla l’uomo commette azioni che, da solo, mai sarebbe giunto a compiere
La risposta potrebbe essere forse un po’ più semplice, che alla fine siamo tutti portati a pensare in qualche modo che essere buoni sia un po’ da fessi, mentre è importante nella vita avere successo, arrivare primi, essere invidiati e ammirati e questo non si raggiunge con le azioni buone (al massimo si diventa santi, ma dopo la morte), mentre in questa mondo è meglio percorrere altre strade e queste, nella gara della vita, possono richiedere la capacità di far stare indietro o addirittura far cadere gli altri per avvantaggiarsi con qualsiasi mezzo anche quelli scorretti o addirittura malvagi.
Ecco perché in fondo siamo tutti un po’ cattivi perché seguiamo la nostra natura. Certo poi ci sono quelli che diventano “tanto” cattivi ma allora bisognerebbe conoscere la storia della loro vita per capire come lo sono diventati, attraverso quali condizionamenti, quali strategie, non sono cattivi ma sono stati fatti diventare cattivi!
Esiste il male?
Come no! Si risponde alla notizia di un attentatore kamikaze che si fa esplodere in un mercato quotidiano o nel mezzo di un concerto.
Esiste il mare di fronte un femminicidio di un marito o fidanzato che non tollera che la sua moglie o fidanzata lo lasci? Come no!
Esiste il male in un politico o amministratore che prende delle mazzette da un industriale? Si ma solo se si fa beccare perché così finisce male, ma se è tanto furbo….
Esiste il male se alcuni godono di ogni bene materiale al di là dei loro bisogni e altri che invece quasi muoiono di fame mancando anche del minimo necessario alla loro sussistenza? Ma, dai cosa c’entra? esistono persone che hanno saputo farsi valere nella vita (ma come?). Hanno delle qualità e quindi dei meriti, mica è colpa loro se altri più sfortunati non c’hanno saputo fare o sono nati nel posto sbagliato!
Nota: forse sarebbe meglio usare il termine “azioni cattive”, se no uno va a pensare che ci sia un sostantivo che identifica non si sa bene cosa. Del resto, diciamo che esistono persone buone, che fanno azioni buone, ma che non è giusto pensare al Bene (sostantivo, vedi il capitolo precedente) come una categoria astratta.
Ma, mentre siamo tutti convinti che dare un calcio a un compagno produce sofferenza e quindi è sicuramente un’azione cattiva, che sia male anche la povertà che c’è in tanti paesi nel mondo siamo anche d’accordo, però di chi sarebbe la colpa? In questo caso pensiamo che sia una cosa che capita come i terremoti, le inondazioni, cioè delle fatalità, sinonimo di sfortuna.
Una delle caratteristiche dell’uomo è che non è obbligato a fare il male, se lo fa, lo fa per scelta. Su questo siamo tutti d’accordo, ma alcuni mica tanto, perché si pensa che l’uomo non possa agire liberamente, ma sia costretto a un certo comportamento dalle condizioni di vita, dalla società, dalla sua costituzione fisica e mentale, insomma non sia libero e quindi non del tutto colpevole di quello che lui compie, un po’ come a scuola, quando di un alunno svogliato si dice che è colpa della famiglia che non lo segue, dei problemi della crescita, che ha dei limiti, e allora magari lo si promuove alla classe successiva ma non si promuove l’alunno, cioè non lo si fa crescere, maturare, lo si fa restare sempre allo stesso livello. La persona secondo questo modo di pensare viene deresponsabilizzata dei propri atti. Capita questo molte volte nei processi per qualche delitto quando l’avvocato difensore cerca di far apparire non pienamente sano di mente il criminale.
Ma perché è così facile fare il male?
Anzitutto proviamo, a riflettere: siamo capaci di dare un giudizio “giusto” (vedremo in un prossimo capitolo cosa indichiamo con l’aggettivo “giusto”) alle azioni che, facciamo ogni giorno? Una volta si consigliava alla sera di “fare un esame di coscienza” cioè di rivedere la nostra azioni più importanti della giornata e di dare ad esse un giudizio. “Ho offeso un compagno? Si però era colpa sua, mi ha provocato... cioè cerchiamo delle scusanti a una nostra azione anche se siamo consapevoli che non è stata una gran bella azione... domandare scusa, cioè riconoscere il male di un’azione è sempre molto difficile. Però nel silenzio della nostra camera da letto e in una specie di dialogo tra noi stessi (dialogo interiore) forse è più facile arrivare alla verità: a pensarci bene, forse avevo delle scuse ma ho sbagliato, del litigio violento un buona parte è stata colpa mia…
Poi su certe azioni abbiamo le idee molto chiare. Chi, se non un malvagio del tutto, direbbe che uccidere una persona non sia una cosa molto grave. Per stiamo attenti, anche in questo caso le scusanti possono entrare lo stesso: “quell’uomo ha ucciso un ladro entrato in casa ma doveva farlo, o almeno il ladro se l’è cercata”.
Ma su altre abbiamo dubbi: “dobbiamo pagare una tassa, però se magari poi non vanno a controllare, faccio anche bene e non pagarla”.
Ma se in questo cosiddetto “esame di coscienza” (lo facciamo qualche volta?), invece di pensare soltanto se abbiamo fatto delle cattive azioni, pensassimo di dare un valore a una azione? Quindi non si tratta di fare l’elenco delle azioni “cattive”, magari quel giorno siamo stati “buoni” e non ce ne sono state. Ma ci sono azioni, atteggiamenti, che hanno un significato. Noi magari sul momento non ce ne accorgiamo ma poi ripensandoci (se siamo capaci di “ripensare”) …
Cosa vuol dire azione che ha un valore…
… e quindi noi indichiamo con l’aggettivo significativa? Che quella azione, o anche quel gesto, non è banale e ripetitiva come tantissime azioni che facciamo ogni giorno, può aver portato un cambiamento positivo in noi (ad esempio una piccola o grande conquista per noi stessi) oppure che è stata notata dalle persone con le quali siamo stati in relazione quel giorno. E infatti come sinonimi di significativo sono indicate le parole rilevante, importante. Ovviamente questo vale per un’azione buona ma è significativa anche un’azione cattiva (e allora non sarà una vittoria ma una sconfitta che noi riportiamo…). Credo che non sia difficile recuperare un elenco anche fitto di esperienze (positive o negative) significative nel proprio ricordo.
E così impariamo a dare un giudizio sull’azione ma anche su noi stessi (“perché mi sono comportato così offendendo? Cosa mi ha spinto a dare una mano o a fare un gesto di gentilezza verso un compagno/compagna che prima neppure mi accorgevo che c’era?”).
Il giudizio su quella azione compiuta diventa un giudizio morale. Riconosciamo che è stata un’azione buona o cattiva.
Il fondamento del giudizio del bene e del male e il criterio che lo stabilisce è la nostra coscienza morale (ne parleremo successivamente).
A questo punto noi possiamo giudicare in due modi (e questo vale non solo per le nostre azioni, ma anche quando ci formiamo dei giudizi sul mondo che ci circonda che poi ci accompagneranno per tutta la vita.
Possiamo giudicare riflettendo ed esaminando con la ragione, oppure possiamo lasciarci trascinare dall’emotività e dall’istinto. Ragionamento ed emotività sono sempre presenti in noi, solo che spesso l’emotività è più facile che faccia presa e abbia il sopravvento. Ciò è quello che avviene sempre ma certamente soprattutto nel periodo presente in cui viviamo la nostra vita, soprattutto perché le informazioni che noi riceviamo sono informazioni “visive”, non discorsive, e queste puntano quasi interamente sull’emotività.
Qualche (provvisoria) conclusione.
Ci avviamo verso la fine di questa seconda serie di riflessioni fissando alcuni punti che possono già essere considerati delle prime conclusioni.
Abbiamo concordato (si spera!) Che l’uomo non è obbligato a fare il male ma, se lo fa, prima c’è stata una scelta, magari per ignoranza o fatta senza riflettere. Se l’uomo per qualche motivo ha fatto un’azione cattiva ma non ha scelto di farla, non ne è responsabile.
Noi qui la parola “male” la usiamo nel senso di azione fatta da noi e che produce sofferenza in noi stessi, sugli altri e anche dove lui agendo provochiamo delle modificazioni.
Anche se usiamo la parola “male” molto spesso, non riteniamo facciano parte espressioni termini come: delusione, tristezza… (“L’esito di questa interrogazione “andata male “mi fa male”) però se l’esito dipende dal fatto che prima ho fatto la scelta di chattare con gli amici e di non prepararmi, allora, a fondamento del mio insuccesso c’è stata una “scelta sbagliata”. Di questa noi siamo responsabili, cioè dobbiamo rendere conto, rispondere.
Finora abbiamo parlato di azioni cattive e, quindi, di coloro che operano il male, producono cioè sofferenza. Adesso spostiamo la nostra attenzione dall’altra parte, cioè dalla parte di coloro che il male lo subiscono, sono vittime del male. Insomma, nella presenza di azioni cattive ci sono gli attori e i coloro che le subiscono (perseguitati)
Quali possibilità hanno costoro e come potrebbero comportarsi nel momento in cui si trovano proprio da questa parte sfortunata?
Un primo atteggiamento, istintivo direi naturale, della vittima potrebbe essere quello di comportarsi allo stesso maniera, non soltanto ricorrendo a qualcuno che lo possa proteggere denunciando il fatto, ma passando egli stesso dalla parte del male e reagendo con le stesse armi, magari cercando alleati dello stesso tipo per rafforzarsi. È così che nascono le “gangs”, che si affermano quando alcuni vogliono avere la prevalenza e il controllo del territorio su altri che hanno la stessa intenzione. Succede, quindi, che in caso di una rissa violenta alla fine non si sa più bene chi aveva iniziato ed è il vero colpevole della situazione. Addirittura può succedere che la vittima diventi l’aggressore e venga sanzionata per questo.
Se non si pensa di avere capacità di risposta al male, talvolta la via preferita è la fuga, nascondersi, cercare di non farsi notare, o, addirittura, accettare di “essere la vittima”. Questo è il sistema più facile perché chi è cattivo lo diventi ancora di più, perché rafforza il sentimento di sentirsi dominatore. Il film del ciclo Fantozzi, pur esageratissimi, tuttavia danno un’idea di cosa vuol dire essere vittima.
C’è poi l’atteggiamento di chi, pur non essendo vittima diretta di qualche provocazione malvagia, guardandosi attorno giunge alla convinzione in tutto l’ambiente e il mondo che lo circonda predomina la cattiveria, l’egoismo, l’invidia, l’ipocrisia eccetera, che non ci sono persone altruiste, ma solo interessate a trarre dei vantaggi anche senza violenza ma con modi subdoli, magari con l’inganno…
Costui porta dentro di sé un pessimismo, una tristezza che alla fine lo conduce a pensare che: tanto il mondo va così, non c’è niente da fare… In questo modo, e di pur potendo fare qualcosa, come si dice “si tira fuori”, sta per conto suo cercando di evitare il più possibile conflitti rogne. È il caso di una persona che possiamo chiamare “pecora”: sta nel gruppo cerca solo di non farsi notare per non essere preso di mira…
Infine, pur mettendo in atto tutte le forme di legittima difesa e di solidarietà contro il male presente attorno a sé, bisogna cambiare prospettiva: guardarsi attorno per vedere anche se qualcuno fa azioni buone, se è fedele, altruista, sa darti una mano eccetera.
Di conseguenza, dopo avere parlato tanto del male, forse è giunto il momento di puntare a parlare del bene, non avverbio ma indicante azioni buone, fatte bene, che producono bene attorno a sé.
PREMESSA
Parlare di etica a scuola, adattando il discorso all’interno non importa di quale fascia, è possibile oggi?
Sono le domande che mi ero posto presentando un primo ipotetico corso di etica in questo sito.
Se si vuole in poche parole e con la massima (anche troppo) sintesi si può definire un generale progetto educativo secondo tre direzioni: la prima è la trasmissione delle conoscenze, la seconda è la costruzione di un’etica, in altre parole, la formazione di un uomo che sappia evitare il male (e collaborare a non farlo) e allo stesso tempo scelga il bene impegnandosi in un contributo per la sua diffusione; la terza strada è il percorso alla ricerca della verità con il riconoscimento del vero e del giusto nell’azione e nella conoscenza. Tutto ciò richiede che il progetto educativo abbia radici ben piantate in un terreno che sappia fornire nutrimento e linfa.
Questo percorso può essere delineato con ponderoso lavoro di analisi e approfondimento, ma, non essendo io in grado di completarlo, con molta modestia mi propongo di progettare una serie di appunti. E si sono costruiti una forma per quanto più possibile dialogica come ci insegna lo stile della comunicazione efficace che Papa Francesco ha realizzato cioè contenuti importanti ma con linguaggio non dotto, bensì piano ed efficace anche alle persone semplici.
Già diverso tempo fa ho tentato di esplorare un’ipotetica strada per iniziare a parlare di etica in un immaginario dialogo tra un insegnante e un gruppo di alunni all’interno di un ipotetico laboratorio di costruzione del pensiero partendo dalle esperienze quotidiane.
Riprendo ora lo stesso tema ma con una prospettiva diversa. Non si tratta soltanto di fare delle domande, attendere risposte, e su queste di delineare uno svolgimento per giungere a conclusioni condivise, quanto piuttosto a definire un percorso un po’ più “filosofico”, impostato su alcuni concetti di filosofia morale.
Pur essendo lontano tanti anni della scuola, mi sto chiedendo come oggi sia possibile nella didattica, non importa di quale materia, trasmettere valori e insegnamenti che, nell’età del pensiero breve, forse gli stessi trovano difficoltà a essere sviluppati nella quotidianità di un contatto. D’altra parte, sono oggi gli insegnanti nell’età del dubbio e delle continue trasformazioni capaci di assumersi questo impegno?
Il primo argomento affrontato in questa seconda parte si rifà alle grandi domande sulle quali l’umanità da sempre ha discusso con risultati molto complicati o controversi: l’uomo è buono o cattivo? Cos’è il bene, cos’è il male? Perché commettiamo il male pur aspirando al bene del quale pur tuttavia abbiamo consapevolezza? Perché in fondo l’uomo deve ricercare e praticare il bene (che comunque è fatica e impegno) quando sarebbe più facile disinteressarsene?
Esiste un percorso per cui noi possiamo anche individuare delle strategie per portare anche dentro di noi un po’ di chiarezza? Questo lo scopo in vista del quale mi sento impegnato a riflettere ed elaborare qualche idea.
Possibili destinatari? Non ho immaginato un gruppo di riferimento, tuttavia potrebbe essere una base di discussione tra persone interessate a discutere sull’argomento della trasmissione di valori etici nel campo educativo.
1 Quale è il compito dell’etica?
Per iniziare diamo una definizione.
Etica è l’insieme di pensieri e di regole a cui noi ci sottoponiamo e che danno significato al nostro agire, cioè al l’insieme del nostro comportamento.
Sia che ne siamo consapevoli, sia no, tutti seguiamo un’etica.
Queste regole (e regolamenti: “noi ci regoliamo di conseguenza”) ci sono state trasmesse fin dai primi anni di vita. È facile pensare alle raccomandazioni e talvolta agli ordini dei genitori. Essi per lo più indicano come comportarci nei confronti di noi stessi e degli altri. Noi questo magari all’inizio lo accettiamo senza difficoltà, ma poi mettiamo il tutto in discussione.
Infatti, vediamo che molto presto ci arrivano ben altri consigli, suggerimenti, inviti, che non sono quelli dei genitori/nonni o insegnanti (e anche qui non è detto che non ci siano differenze!), per cui dobbiamo decidere noi come comportarci. Sono i momenti della scelta tra tanti suggerimenti e proposte che ruotano attorno a noi.
Banalmente, io posso scegliere di mangiare una bruschetta o una pizza, ed è una scelta che non ha alcuna conseguenza se non che può incidere sulla mia digestione. Decidere di provare uno spinello o iniziare a fumare di nascosto con gli amici ha un peso diverso, può avere conseguenza sul rapporto con la realtà.
Non dobbiamo pensare che le nostre scelte siano frutto di grandi ragionamenti, magari con ricerche e consultazione di esperti vari (questi ci possono essere ma non sono mai quelli che alla fine ci convincono il nostro comportamento). Semplicemente, di solito, scegliamo regole e comportamenti che più ci attirano in quel momento, quelli che sembrano più vantaggiosi per noi.
Quelle scelte poi non sono definitive, perché cambiano noi e cambia forse troppo velocemente tutto ciò che ci gira attorno, quindi anche mode, proposte, inviti...
Ma se non vogliamo essere delle foglie rinsecchite sbattute qua e là a seconda di come tira il vento, bisogna che noi siamo foglie attaccate all’albero, da cui traiamo linfa.
Riconoscere l’albero a cui stare attaccati è da cui prendere linfa (vita) ecco il compito dell’etica.
2 Prima indagine. Siamo buoni o cattivi?
Iniziamo da un primo e forse non facile problema: avere un concetto di male. Non “evitare il male”; l’incontro con il “male” nel corso della vita è inevitabile, ma saperlo riconoscere e giudicarlo.
Ma cosa è il male? Non è sempre facile come sembrerebbe dare una risposta.
Ma noi che cosa chiamiamo male? Tutto ciò che ci dà sofferenza non solo fisica anche una delusione, un insuccesso per noi sono male. Potremmo rispondere che bene è quello che desideriamo, male quello da cui vogliamo fuggire? Troppo facile, perché allora la lezione di educazione artistica di una professoressa pignola e sempre incontentabile che ogni settimana ci fa soffrire e di cui vorremmo fare volentieri a meno vuol dire che è “male”? Sono io che decido quello che è bene (per me) o male?
Volendo tuttavia approfondire, anzitutto osserviamo che la parola male viene spesso usata nel linguaggio comune assegnando ad essa significati diversi a seconda del tipo di discorso che si sta facendo.
È male non obbedire ai genitori (ma è sempre così?), non impegnarsi a scuola, non andare d’accordo con i compagni... insomma per male potrebbe essere giudicato il non rispettare delle regole, correre dei pericoli, rischiare di incorrere in sanzioni... Noi usiamo la parola male anche per dire che è male che la nostra squadra non abbia vinto quella partita importante domenica. In questo caso intendiamo dire che l’accadimento ci dà soltanto dispiacere niente di più. Dire poi: “io non ha fatto niente di male” è una giustificazione molto spesso usata da chi è per qualche motivo rimproverato. Ma è solo questo il male o è molto di più?
Soprattutto, se faccio del male, posso considerarmi cattivo? Il dizionario di “cattivo”, come sostantivo, dà questa definizione: persona che fa del male a stesso o verso gli altri (dal punto di vista etimologico la parola da cui discende “cattivo” è il latino captivus, che vuol dire prigioniero. Possiamo perciò definire persona cattiva: “prigioniera del male”.
Parliamo un po’ del male
Se in documentario naturalistico vediamo un leone che caccia una gazzella, la uccide e poi la mangia diciamo che il leone è cattivo? oppure che è crudele? Prima regola: non possiamo attribuire agli animali giudizi che appartengono solo agli uomini. Anche se noi siamo soliti dire che quel cane è cattivo, è una espressione del tutto impropria.
Noi, piuttosto, diremmo che la vita nella savana è violenta, ma non lo diciamo nei confronti del povero leone che fa il mestiere di cacciare per nutrirsi o combatte con altri leoni per poter essere lui a procreare una nuova generazione di leoncini. Segue le leggi di natura.
Osserviamo pure che gli animali diventano solitamente aggressivi quando si sentono minacciati, quando devono difendere i cuccioli (meglio girare al largo se si incontra un’orsa con i piccoli) oppure quando devono difendere il loro territorio da possibili concorrenti, Quindi, l’aggressività degli animali è caratterizzata soprattutto dall’istinto di difesa. Se il leone ha la pacia piena, la gazzella in quel momento non corre pericoli. Oppure, nel caso di un cane, quando è stato addestrato ad essere aggressivo come cane da guardia la sua aggressività gli è stata procurata.
Ma il cacciatore che si propone di uccidere un leone con un infallibile fucile per portarsi a casa un trofeo? Non risponde ad un istinto della caccia per soddisfare un suo bisogno fondamentale, ma per farsi ammirare. È una forma di divertimento. Uccide per divertimento. Una bella differenza non vi pare?
Senza andare nella savana selvaggia, siamo un po’ più vicino a casa nostra.
In una scuola c'è un gruppetto di ragazzi che verso ragazzi, più piccoli o deboli esercita violenza tormentandoli, umiliandoli o addirittura facendo loro violenza fisica. Li chiamiamo di solito “bulli” e ciò che loro fanno “bullismo”. Noi diciamo pure che questi personaggi hanno un bel po' di cattiveria. Sono cattivi, fanno del male ai compagni.
Anche il leone quando azzanna la gazzella “le fa male”, ma noi non diciamo che" fa del male", segue la sua natura. Stiamo attenti non è un gioco di parole!
E allora qui entra una parola su cui potremmo, soffermarci: "male", che di solito è usato come avverbio. “Fare male (cioè nel senso di svogliatamente,) un compito, parlare male dei professori...” non è lo stesso di “fare del male a una persona”.
La parola è la stessa, ma nell’uso che viene fatto nei due contesti indicano cose completamente diverse.
Pensiamo ai due significati che hanno le seguenti frasi:
- Ho fatto male i compiti per casa
- Ho fatto del male al mio compagno
Nel primo caso il termine male è un avverbio, nel secondo è un sostantivo.
Fare male i compiti indica una qualità dell’agire, fare del male a un compagno presuppone una azione. Fare male un compito ha delle conseguenze sull’allievo svogliato, fare del male a un compagno implica che l’autore produce del male, crea della sofferenza. Ogni azione, in qualche modo, e lo sappiamo dall’analisi logica, presuppone un soggetto, un verbo e un complemento.
Dove sta la differenza? Nel primo caso do un giudizio sul mio impegno o su un comportamento, Nel secondo caso indico che ho commesso una azione e questa azione ha avuto una o più conseguenza, ha fatto soffrire qualcuno, oppure ha arrecato un danno.
Fare del male, cioè una azione che produce sofferenza, vuol dire che qualcuno la produce e poteva anche non farla. Il leone non può rinunciare a cacciare la gazzella perché avrebbe poi una fame terribile e se fosse così “buono” non potrebbe vivere. Per il leone cacciare è una necessità.
Anche per l'uomo può darsi il caso che sia necessario fare azioni che appaiono cattive, del male ad esempio qualcuno è costretto esercitando anche violenza e difendere i propri cari da un assalto (anche qui entra il concetto di “difesa”), ma i nostri ragazzi bulli perché producono sofferenza con le loro azioni? Non sono costretti, lo fanno liberamente. Hanno cioè scelto di comportarsi in quella maniera nei confronti dei compagni.
Quindi: si comportano male per questo possono essere rimproverati o subire delle punizioni e “fanno del male”, “producono male”.
Qualche volta succede poi che il male prodotto rimanga e non possa essere riparato. Pensiamo a quello che succede con le foto che sono pubblicate sui social media. Se ne sono l’autore e poi mi pento di ciò, posso fare ben poco, la foto rimane e continua a produrre i suoi effetti anche a distanza di tantissimo tempo. Altrettanto una azione che ha recato una sofferenza non è che sparisce perché mi pento e chiedo scusa. Questo può sembrare aver risolto la situazione per il momento ma ciò che ha prodotto di solito rimane.
Qualche volta a succede che un guidatore ubriaco uccida in un incidente una persona. Dopo, una volta resosi conto del disastro, può sentirsi terribilmente in colpa, ma la morte del passante è irrimediabile, non c’è nulla da fare. Ci sono azioni che una volta compiute non possono essere riparate.
I nostri amici bulli fanno sicuramente un’azione cattiva. Una azione è cattiva quando produce male, una persona lo è quando gran parte del suo modo di agire nei confronti di se stesso e degli altri è orientata al produrre il male. Ma possiamo dire di essi che sono cattivi?
Nei vecchi film western negli anni ‘50 c'erano i buoni e i cattivi. Indicavano del categorie di protagonisti. Allora i buoni erano gli uomini bianchi e i cattivi gli indiani, poi le cose sono un po' cambiate e si è capito che spesso l'uomo bianco era quello dalla parte dei malvagi mentre gli indiani difendevano la loro terra e le loro famiglie.
Ma allora se fare il male è un'azione ed è una scelta, quando e perché si sceglie di fare azioni cattive? (Notate: non ho detto essere cattivi). Anche perché ben pochi sono interamente cattivi, cioè costantemente orientati a produrre il male. E allora, quando e perché i nostri bulli in classe hanno cominciato a tormentare quel compagno più debole?
Sono ben poche le persone e per lo più citate nella storia che hanno fatto una volta nella vita grandi scelte, che hanno accompagnato e deciso tutte le loro azioni, e tutta la loro vita sono state il frutto di quella scelta. Si chiamano scelte radicali perché successivamente tutta la vita di questi personaggi e i loro agire sono completamente diversi, anzi opposti alla vita di prima (per stare nel campo della storia basta citare solo un esempio: S. Francesco d’Assisi). Anche tra i grandi personaggi che incontriamo nella storia ben pochi hanno fatto scelte radicali. Ci sono persone che, almeno a quanto sembra, hanno fatto del male il loro scopo nella vita, ad esempio fare soldi a palate magari utilizzando la droga o il traffico di esseri umani.
Sembra tutto facile giudicare ciò che è male, ma non lo è sempre perché il male va ha talvolta questo brutto difetto che si maschera e addirittura appare affascinante.
I nostri bulli non hanno mai scelto di essere bulli probabilmente. E alloro studiare osservare capire perché lo sono diventati è un'operazione interessante.
Si sono abituati ad esserlo un po’ alla volta con degli atteggiamenti che studiano gli educatori e psicologi quando sono chiamati a intervenire: indagano, vanno alla ricerca di quando e perché sono cominciate le azioni violente. Tutta ha un inizio. Intanto si scopre facilmente che i bulli in gruppo si sono sentiti forti ed hanno pensato che, comportandosi in quella certa maniera, avrebbero rafforzato la loro forza, emulandosi tra di loro e, soprattutto, il loro potere sul gruppo dei compagni.
Essere capace di fare paura a un compagno più debole sembra dare forza, uno pensa di essere magari ammirato o invidiato, perché ha il coraggio di fare cose che gli altri non farebbero, e così non si accorge della sofferenza che produce.
Il male va quindi riconosciuto, questo è un problema riconosciuto, anzi è un grosso problema.
Proviamo a guardare dentro di noi.
Scopriamo subito che noi non siamo sempre buoni e, naturalmente, ci mancherebbe altro, sempre cattivi. Siamo un po’ di qua e un po' di là a seconda del momento e delle circostanze e di quello che ci gira intorno.
Si può essere buoni o cattivi nelle azioni ma anche nei giudizi. Qui bisogna stare attenti perché azioni buone/cattive le facciamo quando capita, ma le opinioni, i giudizi che noi ci mettiamo dentro ogni momento sono quelli che orientano il nostro pensiero e da esso discende anche il nostro comportamento. Sono soprattutto queste che ci fanno diventare veramente buoni/cattivi nella nostra vita.
Se un nostro compagno fa qualcosa che merita di essere punito il nostro giudizio non scaturisce solo da quello che ha fatto realmente, ma anche da rapporto che ci lega con lui. Se è il mio compagno di banco con cui mi trovo al pomeriggio per qualche scappatella dirò che la punizione poteva anche essere più leggera che l'insegnante e stato troppo punitivo magari ce l'aveva un po' con lui…; al contrario se verso il colpevole nutro un po' di antipatia, la mia reazione sarà: se l'è cercata, ben gli sta così impara...
Vediamo cosa sta succedendo nel nostro tempo. Ci sono centinaia di migliaia di persone che stanno arrivando qui da noi fuggendo da condizioni di vita che poco hanno di umano. Arrivano in tanti, arrivano non previsti, senza nulla alle spalle, e questo è sicuramente un problema, di cui devono farsi carico in qualche modo le popolazioni e le autorità dei luoghi dove arrivano.
Quali sono i due modi di giudicare questo imprevisto fatto storico da parte di tanta gente?
Ci sono quelli che di questi arrivati assolutamente non ne vogliono sapere, se potessero li farebbero tornare immediatamente indietro e, dal momento che questo non è possibile, continuano ogni giorno a inveire contro la disavventura. Sono preoccupati per le ricadute che potrebbero avere sulla propria condizione di vita, sul proprio benessere, sulla sicurezza, sui costi economici che tutti sono un po’ chiamati a pagare…
Ma ci sono altri invece che si fanno toccare dalle carico di sofferenza di storia di sofferenza che queste persone si portano dietro e, anche se ciò rappresenta dei costi, tuttavia non rifiutano l’accoglienza e si danno da fare per offrire degli aiuti, cioè per farsi carico in prima persona di un progetto di tolleranza e di integrazione.
Questo è un esempio con cui lo stesso fatto può essere visto da due punti di vista contrapposti. Sono i giudizi a cui una persona giunge quando è chiamata a affrontare ciò che capita di vedere: un costo economico da pagare oppure il valore della solidarietà che ci fa prendere coscienza che, dal momento che siamo uomini, abbiamo tutti farci carico di alcuni doveri verso chi è in estremo bisogno.
È come se fossimo degli spettatori di uno stadio che assistono alle combattuto incontro tra due squadre. Dal momento che si è sullo stadio è probabile che si appartenga a una categoria dei tifosi. Per chi facciamo il tifo?
Come la mettiamo con la responsabilità delle nostre azioni?
Si è visto che un’azione comporta sempre delle conseguenze. Attenzione, anche chiacchierare alle spalle di un amico è un’azione! Un’azione non è soltanto quello che modifica degli oggetti, ma modifica anche delle situazioni.
Quando a scuola uno viene interrogato cose gli si chiede? Una cosa banale: di rispondere. Ma non può rispondere a casaccio con la prima cosa che le viene in mente. Deve rispondere con precisione alla domanda. Diciamo che deve rispondere in modo adeguato.
Così, se uno viene chiamato a testimoniare in tribunale alle domande degli avvocati deve essere consapevole che quello che lui dice può avere delle conseguenze per chi è accusato.
Poiché egli risponde è responsabile di quello che dice, tanto è vero che se viene trovato a mentire quello che viene condannato è pure lui.
Se una compie deliberatamente e consapevolmente un’azione e questa alle conseguenze, egli è responsabile, cioè “risponde” (ecco il significato etimologico da cui prende origine il sostantivo dal latino “respondere”) delle conseguenze delle sue azioni. Ma questo non vale solo in caso di azioni cattive, vale anche in caso di azioni buone (anche se di solito, quando si parla di responsabilità si pensa a fatti negativi).
Un bambino piccolo, correndo per la stanza, rovescia e rompe un vaso pregiato. Non è che la mamma fa salti di gioia, ma non pensa di punire il bambino perché è vero che egli è stato la causa dell’incidente domestico, ma non ne è responsabile perché, intanto, non ha fatto deliberatamente e poi non ha le capacità di autocontrollo che lo avrebbero reso responsabile dell’avvenimento.
Cosa capita fra noi? Quando siamo chiamati a rispondere delle nostre azioni, per prima cosa cerchiamo di scaricare la colpa su altri (“è stato lui che ha cominciato…”), Oppure cerchiamo delle scuse (“sì, è vero però… Non volevo… Non pensavo…”), Oppure cerchiamo degli alibi (“sono stato costretto dalle circostanze a comportarmi in questo modo…, Ma questo lo fano tutti…”).
Una ricerca (storica) interessante sarebbe cercare e trovare qualcuno che dopo un fattaccio ammetta: sì è vero, è colpa mia, e sono pronto a pagare le conseguenze!
Una persona, per certi aspetti, la riteniamo matura se sa essere responsabile e per questo alla fine l’apprezziamo.
Responsabile, quindi, vuol dire anche capace di realizzare i propri impegni presi di fronte a se stesso e agli altri: rispondere con l’attuazione dell’impegni che uno si è preso. Banalmente, se dopo aver visto i risultati della prova negativa decido che qualcosa deve essere cambiato, essere responsabili vuol dire ad esempio non solo prendere atto di quello che si è capito ma realizzare i necessari cambiamenti.
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