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Nei primi anni di insegnamento, ed era qualche generazione fa, ricordo che nel piano di lavoro di italiano che elaboravo a inizio di ogni anno insistevo molto sull’apprendimento alla osservazione, senza rendermi conto fino in fondo cosa esattamente significasse apprendere ad osservare.
Il significato profondo del verbo l'ho ritrovato proprio in questa esperienza turistica. Non conosco lo spagnolo e, ovviamente, per lo svolgimento del tour mi appoggiavo alla guida assegnatami (a metà viaggio ho appreso che era dipendente dal ministero della difesa, quindi militarizzata, anche se non apparteneva alla polizia o all’esercito) che mi dava le solite notizie, che del resto già conoscevo dal momento che, preparando il viaggio, avevo già raccolto una serie abbastanza completa di informazioni artistiche, storiche, geografiche.
Preferivo quindi ascoltare, ma non tanto attentamente la guida e intanto guardarmi attorno, annotando dentro di me una serie di input che lo sguardo mi portava dentro dai luoghi, dalla gente che mi circondava e passava accanto. Le scosse non le ho avute tanto nella visita ad L’Habana capitale dello Stato che, come ogni capitale, ha certi luoghi comuni prevedibili: confusione, clamore di auto, traffico abbastanza impegnativo, palazzi storici e quartieri moderni, ma non così caotico come in tante altre grandi città del mondo che, da turista, ho superficialmente visitato.
Comunque zone coloniali, abbastanza intatte, con palazzi ben conservati del primo novecento sono facilmente ben individuabili ne L’Habana vecchia. Semmai, lì, la vera prima sorpresa sono state le auto d’epoca, come diremmo noi, Buick, Chevrolet, Ford degli anni 50 che ancora con i loro sessant’anni e più sulle spalle viaggiano, non si capisce come (ma, si dice, perché i cubani sono dei maghi della meccanica, anche se non si trovano i pezzi originali aggiustano tutto) e l’automobile va, ma spesso se ne vedono parecchie in panne lungo le strade fuori della città ad aspettare qualcuno che dia una mano per risolvere il problema.
Le vere scoperte, che portano con sè una serie di riflessioni, su cui si costruiscono dei sentimenti e successivamente delle convinzioni, le ho ricavate nei piccoli centri rurali attraverso cui abbiamo transitato, nelle piccole città di provincia che facevano parte del tour.
Della situazione politica di cui tanto si parla, e sulla quale tutti vorrebbero trovare un’immediata risposta, è su quanta libertà di dissenso o di libera espressione ci possa essere oggi nell’isola, non posso dire nulla perché appunto, mancando la comunicazione linguistica, è mancata la possibilità di parlare con la gente, né la guida, prevedibilmente, si è sbottonata più di tanto, a qualche mia precisa domanda ha risposto in modo elusivo.
Ma l’osservazione ha rivelato molto: nei lunghi tratti tra una città all’altra sono frequentissimi i grandi cartelloni con l’immagine di Fidel e del Che, che, forse in modo ossessivo, richiamano ai doveri del cittadino nel costruire la Rivoluzione, e, soprattutto ben specificata, la Rivoluzione socialista; mi colpisce soprattutto la frase che “la Rivoluzione è eterna”; con quanta frequenza sia unito il richiamo alla Unidad del popolo.
Tutto ciò era presente anche nel ventennio italiano e ancora ricordo delle scritte celebrative anche negli edifici costruiti negli anni ‘30 della nostra città sociale di Valdagno: “Il popolo è unito nella misura ecc, ecc.”
L’aspetto più evidente della presenza del regime sono le “Piazze della Rivoluzione” (c'è sempre una piazza della rivoluzione in tutte le dittature) luoghi deputati alla celebrazione delle ricorrenze, caratterizzate dalla vastità dello spazio e ricchezza dei simboli. C’è la famosa piazza della rivoluzione a L’Habama, che viene riportata in tutti servizi e momenti politici importanti di tutte le trasmissioni ma, soprattutto, quella di Santa Clara, luogo sacro deputato a commemorare il suo grande eroe (defunto) in attesa forse che si aggiunga l’altro, ancora vivente. Santa Clara, va ricordato, è la città dove si è svolta l’ultima battaglia tra le forze governative di Batista e guerriglieri campesinos del Che (una specie di Berlino conquistata dai russi) e ha segnato la fine della guerra la conquista del potere da parte dei Castristi.
Sullo sfondo del vastissimo spazio, l’enorme statua del Che su un piedestallo sovrasta il suo memoriale, luogo dove sono poste le sue spoglie e quelli dei compagni della sua sfortunata campagna in Bolivia. Il memoriale è abbastanza suggestivo, come spesso accade, con una fiamma perenne, mentre il museo dei cimeli, armi, oggetti, abiti, copie delle lettere del Che è posto lì accanto.
Il fatto di aver trovato una lunga fila di turisti che in maniera molto ordinata entravano a visitare memoriale e museo, al di là certamente dell’interesse storico, mi ha fatto pensare che in qualche modo questa fosse una visita pressoché obbligata. Ripeto, è un’impressione che mi fa sorgere la domanda quanto poi tutto questo sia presente nel cuore del popolo. Probabilmente molto, perché con questi continui richiami anche stradali e ovunque nella città l’indottrinamento delle giovani generazioni che non hanno conosciuto la storia precedente, deve essere stato abbastanza capillare e probabilmente ha inciso.
Nei desk turistici degli alberghi e nelle edicole lungo le strade, le guide turistiche dei luoghi e l'indicazione delle attrattive sono ben in secondo piano, mentre in primo piano fanno bella mostra una fila di dépliant, libri, manifesti che riportano, discorsi, massime, detti e imprese del Che e degli eroi della Rivoluzione. Mi viene da pensare che i Cubani, dopo aver fatto la rivoluzione con Fidel, hanno creato la religione del Che e, forse, di Fidel in futuro.
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