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Si parla di quella esperienza complessiva, comunemente indicata come “Città Sociale”, ma che sarebbe meglio ora chiamare sempre col suo vero nome “Città dell’Armonia”. Non è tanto, tuttavia, sul complesso dell’intera “città” che l’autore focalizza il proprio interesse, quanto sulla vita della, tutto considerato, più limitata parte a nord e del suo “centro sociale”, cioè di aggregazione per i numerosi ragazzini che lì ci abitavano, e che è rappresentato dalla “corte” che racchiude i grandi condomini posti a fianco del Rivoli, dietro il teatro stesso e delimitato a nord dal torrente Valgrossa; per chi conosce Valdagno, un luogo fisico preciso, dove l’autore vive attualmente. Lì molti ragazzi del decennio tra il 1955-1965 hanno giocato, stretto relazioni, fondato amicizie, irrobustito attività di gruppo… Insomma, come in tutti i quartieri delle città, quando non c’era la televisione o lo smartphone, e la crescita dei ragazzini e degli adolescenti si sviluppava all’interno di una vita sociale molto attiva. Non ci sono racconti precisi di “avventure”, ma soprattutto i tanti nomi dei coetanei, che sicuramente si riconosceranno nel clima di quegli anni.
Ma, ecco la tesi dell’autore. In quel posto i ragazzi sono vissuti non in un generico, anonimo ma ben identificato quartiere, ma in un ambiente particolare, appunto il quartiere della “Rinascente”, voluto da Gaetano Marzotto non solo come semplice luogo di residenza dei suoi operai, impiegati o dirigenti, ma come espressione di un modo “bello” di vivere, in una realtà bella, dove il vivere è confortato dalla presenza di un insieme di cose “belle” e, per quel tempo, anche artisticamente assolutamente prestigiose: la grande facciata musiva del teatro Rivoli di Santomaso, la scenografica piazza Verdi, i condomini per operai e impiegati con una qualità e uno stile abitativo ancora inconfondibile, le prestigiose Ville dei dirigenti, a sud una serie di impianti sportivi al tempo all’avanguardia.
Tutto ciò, richiama l’autore nella presentazione pubblica del suo libro, non può essere dimenticato come elemento costitutivo del crescere da parte di una generazione di ragazzi. È la vita non solo della gente, ma anche della fabbrica, della dimensione e del posto che aveva il lavoro, un lavoro comunque privilegiato, perché tra fabbrica e quartiere la connessione era non solo fisica (il cosiddetto “ponte dele ciacole”), ma psicologica e spirituale. I nostri vecchi operai amavano non solo il quartiere ma la fabbrica e il lavoro. Amavano e consideravano un privilegio, abitare a Valdagno.
Lo stesso autore, nella presentazione e discussione sul libro tenuta la sera del 16 febbraio nella scuola di musica Vittorio Emanuele Marzotto, alla fine ha precisato con esattezza ciò che il libro vuole essere: un approccio estetico al vivere nel quartiere a Nord di Valdagno. Penso che proprio questo sia la chiave di lettura di questo volume; ma, attenzione, un approccio “estetico” non “sociologico”!
Qui, forse, nell’opera di Busato emerge un limite. I “ragazzi della Rinascente hanno respirato nella loro crescita tutta l’atmosfera di quel quartiere, ma in realtà l’autore non definisce bene (e forse non era possibile nella pluralità delle esperienze), che cosa come ha influito questa atmosfera sul loro crescere lì, in quel tempo e in quel luogo.
Sicuramente i ragazzi della Rinascente non erano diversi (e non potevano esserlo) nel modo di giocare, di esprimersi in quegli anni dai ragazzi di altri quartieri di Valdagno, della Rio, ad esempio, che era il quartiere più antico e popolare, o del quartiere Lido, dove, tuttavia, mancando spazi precisi di aggregazione (la corte) lì i gruppi non erano così identificati. I ragazzi delle “contrade” della collina Massignani, Meggiara, Cerealto, Campotamaso, Piana… allora molto popolate, si esprimevano pure essi nella partecipazione alla vita della loro comunità, addirittura, forse, in modo più identitario (essere della Piana, di Novale di Sopra, di Novale di sotto…). Valdagno, qualcuno ha detto, non è mai stata città, ma solo un insieme di contrade e di quartieri.
Possiamo dire che essi nel loro crescere fossero “diversi” dagli altri ragazzi degli “altri” quartieri? Non c’è forse il rischio di “mitizzare” una esperienza di vita? Sia ben chiaro, è una domanda.
Da qui nascono alcune osservazioni che appartengono a chi, come il sottoscritto, è cresciuto pure lui alla Rinascente. Ma non proprio, già oltre il ponte, alle spalle dei condomini, sorgeva il quartiere della Valgrossa. Nomen omen, si potrebbe dire, anche se raramente il torrente si riempiva di acqua.
Vivere nella “Città dell’Armonia” nella parte Nord, poi, non era lo stesso che vivere nella stessa “città” a sud, nel quartiere Lido, vicino alla piscina o nelle più recenti costruzioni, quelle poste in via Zanella. Le scuole, impianti sportivi, in realtà ponevano una separazione; urbanisticamente univano le due parti (cioè due “quartieri”), ma in realtà le separavano.
Io ho sempre giudicato (o vissuto?) la “Città dell’Armonia” come una città fortemente gerarchicizzata: un insieme quasi di sotto-quartieri: il gruppo delle case per gli operai, la parte che raccoglie le abitazioni per gli impiegati, il gruppo delle Ville, grandi e imponenti anche per quegli anni, per i dirigenti. Tutti insieme, è vero, ma fortemente distinti. Forse, i ragazzi non avvertivano questa distinzione (ne siamo proprio sicuri?), ma essa c’era ed era reale. È stato ricordato che anche per chi viveva “accanto” non era facile “accedere” a quelle case! Il che significava creare relazioni, rapporti tra coetanei, camerateschi, con tutti, anche con chi, in qualche modo, rappresentava “classi (?) sociali” diverse. I ragazzi della Rinascente giocavano tutti assieme, ma poi i ragazzi degli operai non entravano nelle case dei dirigenti, né i primi avrebbero invitato i coetanei di un’altra categoria sociale nella loro abitazione, moderna ma modesta nel confronto con le grandiose ville.
Questa convinzione, di essere insieme ma distinti, l’ho avvertita almeno per tutti gli anni di liceo come un sentimento di differenza e separazione tra gruppi, socialmente diversi, di compagni. Ma forse ciò appartiene alla mia particolare sensibilità psicologica, però è pur sempre una esperienza vissuta.
La Città dell’Armonia voleva superare la lotta di classe, attraverso il benessere di tutti fornito da una pluralità di servizi a coloro che vi abitavano, ma non è vero che le “classi” di fatto non esistessero. Era “armonica” nelle intenzioni, perché era tutto inquadrato e previsto. Già nei momenti ricreativi esisteva il DAM per gli operai e “L’albergo Pasubio”, frequentato dagli impiegati. Non c’era di certo un “apartheid”, ci sarebbe mancato altro, ma di fatto l’interscambio non avveniva.
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