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dii Antonio Boscato
Il “Quasi” del titolo del volume: "I Ragazzi della Rinascent" di Francesco Busato, (Tipografia Danzo, dicembre 2015) non è casuale. Intende sottolineare che il presente contributo, più che una vera “recensione” (cito quella di Luigi Borgo pubblicata ne “Il Nostro Campanile” n. 4/2015) vuole essere e magari anche suscitare una discussione sull’esperienza del “vivere” nella Città Sociale che, per la sua conformazione urbanistica creava un tessuto urbano e una qualità di vita, nuovo e diverso dai tradizionali.
Chi incontra in libreria l’agile e scorrevole volume “I ragazzi della Rinascente”, opera di Francesco Busato, valdagnese classe 1949 e già autore di un altro volume “Le stagioni di Peo” (2014) può essere tratto in inganno dal titolo che richiama un altro e più celebre: “I ragazzi della via Pall” dell’ungherese Ferenc Molnár; insomma, immagina, si parlerebbe delle avventure di una banda di ragazzi di un particolare quartiere di una particolare città.
Magari, se uno è un amante della sua Valdagno, può pensare a uno dei tanti libri pubblicati da numerosi valdagnesi che ritornano alla Valdagno e alla valle dei loro ricordi, quando il pane aveva un sapore più da pane e le strade erano vissute da tanti bambini giocanti e chiassosi mentre ora le stesse strade sono percorse da tanti anziani con badanti, oppure, guardando con occhi più benevoli, accompagnati dai propri piccoli cani (e anche questo ad occhi attenti e uno dei tanti segnali della trasformazione sociologica della nostra comunità), eccetera… Un libro che vorrebbe esprimere un ritorno nostalgico a un “felice” tempo perduto.
Nel libro di Busato c’è la Valdagno “dei ragazzi della Rinascente”, i suoi coetanei, oggi tutti tra i 60-70 anni nella dimensione dell’esistenza adolescenziale, che non è solo il riempire un “tempo”, ma il tempo nella Valdagno prima del ’68. Da quella data, poi, effettivamente, è cambiato tutto.
L’opera la possiamo considerare un racconto-saggio, oppure un saggio sotto forma di racconto (io preferirei questa accezione). Lo spunto, parte da un fatto reale, un invito a pranzo di tutta la famiglia di Francesco, ragazzino allora di terza media, da parte del conte Gaetano Marzotto. L’invito a pranzo da Marzotto per una famiglia di semplici operai in quel grande palazzo, deve essere sembrato un grande privilegio e, quindi, è normale che sia rimasto impresso anche al ragazzino Francesco. Forse l'ispirazione, quanto alla struttura dell’opera, si rifà, in qualche maniera, al “Simposio” di Platone? Non l’ho chiesto all’autore, ma il fatto che egli sia stato professore di filosofia al liceo, ne giustifica la supposizione.
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