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Job.Scuola.Idee

raccolta di idee e strumenti per una DIDATTICA moderna

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PREMESSA

Parlare di etica a scuola, adattando il discorso all’interno non importa di quale fascia, è possibile oggi?

Sono le domande che mi ero posto presentando un primo ipotetico corso di etica in questo sito.

Se si vuole in poche parole e con la massima (anche troppo) sintesi si può definire un generale progetto educativo secondo tre direzioni: la prima è la trasmissione delle conoscenze, la seconda è la costruzione di un’etica, in altre parole, la formazione di un uomo che sappia evitare il male (e collaborare a non farlo) e allo stesso tempo scelga il bene impegnandosi in un contributo per la sua diffusione; la terza strada è il percorso alla ricerca della verità  con il riconoscimento  del vero e del giusto nell’azione e nella conoscenza.  Tutto ciò richiede che il progetto educativo abbia radici ben piantate in un terreno che sappia fornire nutrimento e linfa.

Questo percorso può essere delineato con ponderoso lavoro di analisi e approfondimento, ma, non essendo io in grado di completarlo, con molta modestia mi propongo di progettare una serie di appunti. E si sono costruiti una forma per quanto più possibile dialogica come ci insegna lo stile della comunicazione efficace che Papa Francesco ha realizzato cioè contenuti importanti ma con linguaggio non dotto, bensì piano ed efficace anche alle persone semplici.

Già diverso tempo fa ho tentato di esplorare un’ipotetica strada per iniziare a parlare di etica in un immaginario dialogo tra un insegnante e un gruppo di alunni all’interno di un ipotetico laboratorio di costruzione del pensiero partendo dalle esperienze quotidiane.

Riprendo ora lo stesso tema ma con una prospettiva diversa. Non si tratta soltanto di fare delle domande, attendere risposte, e su queste di delineare uno svolgimento per giungere a conclusioni condivise, quanto piuttosto a definire un percorso un po’ più “filosofico”, impostato su alcuni concetti di filosofia morale.

Pur essendo lontano tanti anni della scuola, mi sto chiedendo come oggi sia possibile nella didattica, non importa di quale materia, trasmettere valori e insegnamenti che, nell’età del pensiero breve, forse gli stessi trovano difficoltà a essere sviluppati nella quotidianità di un contatto. D’altra parte, sono oggi gli insegnanti nell’età del dubbio e delle continue trasformazioni capaci di assumersi questo impegno?


 

Il primo argomento affrontato in questa seconda parte si rifà alle grandi domande sulle quali l’umanità da sempre ha discusso con risultati molto complicati o controversi: l’uomo è buono o cattivo? Cos’è il bene, cos’è il male? Perché commettiamo il male pur aspirando al bene del quale pur tuttavia abbiamo consapevolezza? Perché in fondo l’uomo deve ricercare e praticare il bene (che comunque è fatica e impegno) quando sarebbe più facile disinteressarsene?

Esiste un percorso per cui noi possiamo anche individuare delle strategie per portare anche dentro di noi un po’ di chiarezza? Questo lo scopo in vista del quale mi sento impegnato a riflettere ed elaborare qualche idea.

Possibili destinatari? Non ho immaginato un gruppo di riferimento, tuttavia potrebbe essere una base di discussione tra persone interessate a discutere sull’argomento della trasmissione di valori etici nel campo educativo.

1     Quale è il compito dell’etica?

Per iniziare diamo una definizione.

Etica è l’insieme di pensieri e di regole a cui noi ci sottoponiamo e che danno significato al nostro agire, cioè al l’insieme del nostro comportamento.

Sia che ne siamo consapevoli, sia no, tutti seguiamo un’etica.

Queste regole (e regolamenti: “noi ci regoliamo di conseguenza”) ci sono state trasmesse fin dai primi anni di vita. È facile pensare alle raccomandazioni e talvolta agli ordini dei genitori. Essi per lo più indicano come comportarci nei confronti di noi stessi e degli altri. Noi questo magari all’inizio lo accettiamo senza difficoltà, ma poi mettiamo il tutto in discussione.

Infatti, vediamo che molto presto ci arrivano ben altri consigli, suggerimenti, inviti, che non sono quelli dei genitori/nonni o insegnanti (e anche qui non è detto che non ci siano differenze!), per cui dobbiamo decidere noi come comportarci. Sono i momenti della scelta tra tanti suggerimenti e proposte che ruotano attorno a noi.

Banalmente, io posso scegliere di mangiare una bruschetta o una pizza, ed è una scelta che non ha alcuna conseguenza se non che può incidere sulla mia digestione. Decidere di provare uno spinello o iniziare a fumare di nascosto con gli amici ha un peso diverso, può avere conseguenza sul rapporto con la realtà.

 Non dobbiamo pensare che le nostre scelte siano frutto di grandi ragionamenti, magari con ricerche e consultazione di esperti vari (questi ci possono essere ma non sono mai quelli che alla fine ci convincono il nostro comportamento). Semplicemente, di solito, scegliamo regole e comportamenti che più ci attirano in quel momento, quelli che sembrano più vantaggiosi per noi.

Quelle scelte poi non sono definitive, perché cambiano noi e cambia forse troppo velocemente tutto ciò che ci gira attorno, quindi anche mode, proposte, inviti...

Ma se non vogliamo essere delle foglie rinsecchite sbattute qua e là a seconda di come tira il vento, bisogna che noi siamo foglie attaccate all’albero, da cui traiamo linfa.

Riconoscere l’albero a cui stare attaccati è da cui prendere linfa (vita) ecco il compito dell’etica.


 

2     Prima indagine. Siamo buoni o cattivi?

Iniziamo da un primo e forse non facile problema: avere un concetto di male. Non “evitare il male”; l’incontro con il “male” nel corso della vita è inevitabile, ma saperlo riconoscere e giudicarlo.

Ma cosa è il male? Non è sempre facile come sembrerebbe dare una risposta.

Ma noi che cosa chiamiamo male? Tutto ciò che ci dà sofferenza non solo fisica anche una delusione, un insuccesso per noi sono male. Potremmo rispondere che bene è quello che desideriamo, male quello da cui vogliamo fuggire? Troppo facile, perché allora la lezione di educazione artistica di una professoressa pignola e sempre incontentabile che ogni settimana ci fa soffrire e di cui vorremmo fare volentieri a meno vuol dire che è “male”? Sono io che decido quello che è bene (per me) o male?

Volendo tuttavia approfondire, anzitutto osserviamo che la parola male viene spesso usata nel linguaggio comune assegnando ad essa significati diversi a seconda del tipo di discorso che si sta facendo.

È male non obbedire ai genitori (ma è sempre così?), non impegnarsi a scuola, non andare d’accordo con i compagni... insomma per male potrebbe essere giudicato il non rispettare delle regole, correre dei pericoli, rischiare di incorrere in sanzioni... Noi usiamo la parola male anche per dire che è male che la nostra squadra non abbia vinto quella partita importante domenica. In questo caso intendiamo dire che l’accadimento ci dà soltanto dispiacere niente di più. Dire poi: “io non ha fatto niente di male” è una giustificazione molto spesso usata da chi è per qualche motivo rimproverato. Ma è solo questo il male o è molto di più?

Soprattutto, se faccio del male, posso considerarmi cattivo? Il dizionario di “cattivo”, come sostantivo, dà questa definizione: persona che fa del male a stesso o verso gli altri (dal punto di vista etimologico la parola da cui discende “cattivo” è il latino captivus, che vuol dire prigioniero. Possiamo   perciò definire persona cattiva: “prigioniera del male”.

Parliamo un po’ del male

Se in documentario naturalistico vediamo un leone che caccia una gazzella, la uccide e poi la mangia diciamo che il leone è cattivo? oppure che è crudele? Prima regola: non possiamo attribuire agli animali giudizi che appartengono solo agli uomini. Anche se noi siamo soliti dire che quel cane è cattivo, è una espressione del tutto impropria.

Noi, piuttosto, diremmo che la vita nella savana è violenta, ma non lo diciamo nei confronti del povero leone che fa il mestiere di cacciare per nutrirsi o combatte con altri leoni per poter essere lui a procreare una nuova generazione di leoncini. Segue le leggi di natura.

Osserviamo pure che gli animali diventano solitamente aggressivi quando si sentono minacciati, quando devono difendere i cuccioli (meglio girare al largo se si incontra un’orsa con i piccoli) oppure quando devono difendere il loro territorio da possibili concorrenti, Quindi, l’aggressività degli animali è caratterizzata soprattutto dall’istinto di difesa. Se il leone ha la pacia piena, la gazzella in quel momento non corre pericoli. Oppure, nel caso di un cane, quando è stato addestrato ad essere aggressivo come cane da guardia la sua aggressività gli è stata procurata.

Ma il cacciatore che si propone di uccidere un leone con un infallibile fucile per portarsi a casa un trofeo? Non risponde ad un istinto della caccia per soddisfare un suo bisogno fondamentale, ma per farsi ammirare. È una forma di divertimento. Uccide per divertimento. Una bella differenza non vi pare?

Senza andare nella savana selvaggia, siamo un po’ più vicino a casa nostra.

In una scuola c'è un gruppetto di ragazzi che verso ragazzi, più piccoli o deboli esercita violenza tormentandoli, umiliandoli o addirittura facendo loro violenza fisica. Li chiamiamo di solito “bulli” e ciò che loro fanno “bullismo”. Noi diciamo pure che questi personaggi hanno un bel po' di cattiveria. Sono cattivi, fanno del male ai compagni.

Anche il leone quando azzanna la gazzella “le fa male”, ma noi non diciamo che" fa del male", segue la sua natura. Stiamo attenti non è un gioco di parole!

E allora qui entra una parola su cui potremmo, soffermarci: "male", che di solito è usato come avverbio. “Fare male (cioè nel senso di svogliatamente,) un compito, parlare male dei professori...” non è lo stesso di “fare del male a una persona”.

La parola è la stessa, ma nell’uso che viene fatto nei due contesti indicano cose completamente diverse.

Pensiamo ai due significati che hanno le seguenti frasi:

  • Ho fatto male i compiti per casa
  • Ho fatto del male al mio compagno

Nel primo caso il termine male è un avverbio, nel secondo è un sostantivo.

Fare male i compiti indica una qualità dell’agire, fare del male a un compagno presuppone una azione. Fare male un compito ha delle conseguenze sull’allievo svogliato, fare del male a un compagno implica che l’autore produce del male, crea della sofferenza. Ogni azione, in qualche modo, e lo sappiamo dall’analisi logica, presuppone un soggetto, un verbo e un complemento.

Dove sta la differenza? Nel primo caso do un giudizio sul mio impegno o su un comportamento, Nel secondo caso indico che ho commesso una azione e questa azione ha avuto una o più conseguenza, ha fatto soffrire qualcuno, oppure ha arrecato un danno.

Fare del male, cioè una azione che produce sofferenza, vuol dire che qualcuno la produce e poteva anche non farla. Il leone non può rinunciare a cacciare la gazzella perché avrebbe poi una fame terribile e se fosse così “buono” non potrebbe vivere. Per il leone cacciare è una necessità.


 

Anche per l'uomo può darsi il caso che sia necessario fare azioni che appaiono cattive, del male ad esempio qualcuno è costretto esercitando anche violenza e difendere i propri cari da un assalto (anche qui entra il concetto di “difesa”), ma i nostri ragazzi bulli perché producono sofferenza con le loro azioni? Non sono costretti, lo fanno liberamente. Hanno cioè scelto di comportarsi in quella maniera nei confronti dei compagni.

Quindi: si comportano male per questo possono essere rimproverati o subire delle punizioni e “fanno del male”, “producono male”.

Qualche volta succede poi che il male prodotto rimanga e non possa essere riparato. Pensiamo a quello che succede con le foto che sono pubblicate sui social media. Se ne sono l’autore e poi mi pento di ciò, posso fare ben poco, la foto rimane e continua a produrre i suoi effetti anche a distanza di tantissimo tempo. Altrettanto una azione che ha recato una sofferenza non è che sparisce perché mi pento e chiedo scusa. Questo può sembrare aver risolto la situazione per il momento ma ciò che ha prodotto di solito rimane.

Qualche volta a succede che un guidatore ubriaco uccida in un incidente una persona. Dopo, una volta resosi conto del disastro, può sentirsi terribilmente in colpa, ma la morte del passante è irrimediabile, non c’è nulla da fare. Ci sono azioni che una volta compiute non possono essere riparate.

I nostri amici bulli fanno sicuramente un’azione cattiva. Una azione è cattiva quando produce male, una persona lo è quando gran parte del suo modo di agire nei confronti di se stesso e degli altri è orientata al produrre il male. Ma possiamo dire di essi che sono cattivi?

Nei vecchi film western negli anni ‘50 c'erano i buoni e i cattivi. Indicavano del categorie di protagonisti. Allora i buoni erano gli uomini bianchi e i cattivi gli indiani, poi le cose sono un po' cambiate e si è capito che spesso l'uomo bianco era quello dalla parte dei malvagi mentre gli indiani difendevano la loro terra e le loro famiglie.

Ma allora se fare il male è un'azione ed è una scelta, quando e perché si sceglie di fare azioni cattive? (Notate: non ho detto essere cattivi). Anche perché ben pochi sono interamente cattivi, cioè costantemente orientati a produrre il male. E allora, quando e perché i nostri bulli in classe hanno cominciato a tormentare quel compagno più debole?

Sono ben poche le persone e per lo più citate nella storia che hanno fatto una volta nella vita grandi scelte, che hanno accompagnato e deciso tutte le loro azioni, e tutta la loro vita sono state il frutto di quella scelta. Si chiamano scelte radicali perché successivamente tutta la vita di questi personaggi e i loro agire sono completamente diversi, anzi opposti alla vita di prima (per stare nel campo della storia basta citare solo un esempio: S. Francesco d’Assisi). Anche tra i grandi personaggi che incontriamo nella storia ben pochi hanno fatto scelte radicali. Ci sono persone che, almeno a quanto sembra, hanno fatto del male il loro scopo nella vita, ad esempio fare soldi a palate magari utilizzando la droga o il traffico di esseri umani.

Sembra tutto facile giudicare ciò che è male, ma non lo è sempre perché il male va ha talvolta questo brutto difetto che si maschera e addirittura appare affascinante.

I nostri bulli non hanno mai scelto di essere bulli probabilmente.  E alloro studiare osservare capire perché lo sono diventati è un'operazione interessante.

Si sono abituati ad esserlo un po’ alla volta con degli atteggiamenti che studiano gli educatori e psicologi quando sono chiamati a intervenire: indagano, vanno alla ricerca di quando e perché sono cominciate le azioni violente. Tutta ha un inizio. Intanto si scopre facilmente che i bulli in gruppo si sono sentiti forti ed hanno pensato che, comportandosi in quella certa maniera, avrebbero rafforzato la loro forza, emulandosi tra di loro e, soprattutto, il loro potere sul gruppo dei compagni.

Essere capace di fare paura a un compagno più debole sembra dare forza, uno pensa di essere magari ammirato o invidiato, perché ha il coraggio di fare cose che gli altri non farebbero, e così non si accorge della sofferenza che produce.

Il male va quindi riconosciuto, questo è un problema riconosciuto, anzi è un grosso problema.


 

Proviamo a guardare dentro di noi.

Scopriamo subito che noi non siamo sempre buoni e, naturalmente, ci mancherebbe altro, sempre cattivi. Siamo un po’ di qua e un po' di là a seconda del momento   e delle circostanze e di quello che ci gira intorno.

Si può essere buoni o cattivi nelle azioni ma anche nei giudizi. Qui bisogna stare attenti perché azioni buone/cattive le facciamo quando capita, ma le opinioni, i giudizi che noi ci mettiamo dentro ogni momento sono quelli che orientano il nostro pensiero e da esso discende anche il nostro comportamento. Sono soprattutto queste che ci fanno diventare veramente buoni/cattivi nella nostra vita.

Se un nostro compagno fa qualcosa che merita di essere punito il nostro giudizio non scaturisce solo da quello che ha fatto realmente, ma anche da rapporto che ci lega con lui. Se è il mio compagno di banco con cui mi trovo al pomeriggio per qualche scappatella dirò che la punizione poteva anche essere più leggera che l'insegnante e stato troppo punitivo magari ce l'aveva un po' con lui…; al contrario se verso il colpevole nutro un po' di antipatia, la mia reazione sarà: se l'è cercata, ben gli sta così impara...

Vediamo cosa sta succedendo nel nostro tempo. Ci sono centinaia di migliaia di persone che stanno arrivando qui da noi fuggendo da condizioni di vita che poco hanno di umano. Arrivano in tanti, arrivano non previsti, senza nulla alle spalle, e questo è sicuramente un problema, di cui devono farsi carico in qualche modo le popolazioni e le autorità dei luoghi dove arrivano.

Quali sono i due modi di giudicare questo imprevisto fatto storico da parte di tanta gente?

Ci sono quelli che di questi arrivati assolutamente non ne vogliono sapere, se potessero li farebbero tornare immediatamente indietro e, dal momento che questo non è possibile, continuano ogni giorno a inveire contro la disavventura. Sono preoccupati per le ricadute che potrebbero avere sulla propria condizione di vita, sul proprio benessere, sulla sicurezza, sui costi economici che tutti sono un po’ chiamati a pagare…

Ma ci sono altri invece che si fanno toccare dalle carico di sofferenza di storia di sofferenza che queste persone si portano dietro e, anche se ciò rappresenta dei costi, tuttavia non rifiutano l’accoglienza e si danno da fare per offrire degli aiuti, cioè per farsi carico in prima persona di un progetto di tolleranza e di integrazione.

Questo è un esempio con cui lo stesso fatto può essere visto da due punti di vista contrapposti. Sono i giudizi a cui una persona giunge quando è chiamata a affrontare ciò che capita di vedere: un costo economico da pagare oppure il valore della solidarietà che ci fa prendere coscienza che, dal momento che siamo uomini, abbiamo tutti farci carico di alcuni doveri verso chi è in estremo bisogno.

È come se fossimo degli spettatori di uno stadio che assistono alle combattuto incontro tra due squadre. Dal momento che si è sullo stadio è probabile che si appartenga a una categoria dei tifosi. Per chi facciamo il tifo?

Come la mettiamo con la responsabilità delle nostre azioni?

Si è visto che un’azione comporta sempre delle conseguenze. Attenzione, anche chiacchierare alle spalle di un amico è un’azione! Un’azione non è soltanto quello che modifica degli oggetti, ma modifica anche delle situazioni.

Quando a scuola uno viene interrogato cose gli si chiede? Una cosa banale: di rispondere. Ma non può rispondere a casaccio con la prima cosa che le viene in mente. Deve rispondere con precisione alla domanda. Diciamo che deve rispondere in modo adeguato.

Così, se uno viene chiamato a testimoniare in tribunale alle domande degli avvocati deve essere consapevole che quello che lui dice può avere delle conseguenze per chi è accusato.

Poiché egli risponde è responsabile di quello che dice, tanto è vero che se viene trovato a mentire quello che viene condannato è pure lui.

Se una compie deliberatamente e consapevolmente un’azione e questa alle conseguenze, egli è responsabile, cioè “risponde” (ecco il significato etimologico da cui prende origine il sostantivo dal latino “respondere”) delle conseguenze delle sue azioni. Ma questo non vale solo in caso di azioni cattive, vale anche in caso di azioni buone (anche se di solito, quando si parla di responsabilità si pensa a fatti negativi).

Un bambino piccolo, correndo per la stanza, rovescia e rompe un vaso pregiato. Non è che la mamma fa salti di gioia, ma non pensa di punire il bambino perché è vero che egli è stato la causa dell’incidente domestico, ma non ne è responsabile perché, intanto, non ha fatto deliberatamente e poi non ha le capacità di autocontrollo che lo avrebbero reso responsabile dell’avvenimento.

Cosa capita fra noi? Quando siamo chiamati a rispondere delle nostre azioni, per prima cosa cerchiamo di scaricare la colpa su altri (“è stato lui che ha cominciato…”), Oppure cerchiamo delle scuse (“sì, è vero però… Non volevo… Non pensavo…”), Oppure cerchiamo degli alibi (“sono stato costretto dalle circostanze a comportarmi in questo modo…, Ma questo lo fano tutti…”).

Una ricerca (storica) interessante sarebbe cercare e trovare qualcuno che dopo un fattaccio ammetta: sì è vero, è colpa mia, e sono pronto a pagare le conseguenze!

Una persona, per certi aspetti, la riteniamo matura se sa essere responsabile e per questo alla fine l’apprezziamo.

Responsabile, quindi, vuol dire anche capace di realizzare i propri impegni presi di fronte a se stesso e agli altri: rispondere con l’attuazione dell’impegni che uno si è preso. Banalmente, se dopo aver visto i risultati della prova negativa decido che qualcosa deve essere cambiato, essere responsabili vuol dire ad esempio non solo prendere atto di quello che si è capito ma realizzare i necessari cambiamenti.


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