SE È POSSIBILE UN CORSO DI ETICA A SCUOLA?
Per un approccio dialogico ai problemi della formazione etica nella pratica educativa scolastica quotidiana
Proposte in itinere
di Antonio Boscato
- PREMESSA
- FARE – NON FARE; GIUSTO – SBAGLIATO?
- ANCORA SUL GIUSTO-INGIUSTO
- PARLIAMO UN PO’ DI “CORAGGIO”
- EMOZIONI PER CONOSCERE E RICONOSCERSI
“Lo faccio, non lo faccio? Devo farlo, dovrei farlo, dovrei farlo ma…? E se devo farlo cosa ci guadagno…?”.
Ci sono tante domande che una persona, non importa se ragazzo in maturazione o adulto, può porsi o meglio, dovrebbe porsi, in momenti della particolare giornata e della propria vita. Successivamente possono scaturire altre domande più “impegnative” e “profonde”: Chi sono io? Chi sono per gli altri? E chi altri chi sono per me?”.
Ma ci sono nella nostra contemporaneità possibilità e capacità, anche di analisi logica, se si vuole, per sviluppare questo tipo di riflessioni? Interrogarsi sul significato e sulle ricadute delle proprie azioni non è, in apparenza, pratica esercitata. Più di altro, sfugge l’occasione (o forse mancano strumenti?), per assegnare significato e valore alle proprie azioni.
Quanti filosofi e pensatori hanno discusso e posto il problema dell’etica, ma quale spazio essa trova adesso nei momenti e nei luoghi più prettamente formativi?
I materiali qui proposti sequenzialmente non sono un trattato sulla grande questione dell’etica e nemmeno sul rapporto tra etica ed educazione o una rassegna delle teorie sull’etica ed educazione in un’epoca in cui le travolgenti trasformazioni quotidianamente mettono in discussione valori tradizionali, senza dare immediato e riconoscibile supporto culturale valido a tutto ciò che ad essi si sostituisce. Non si dice infatti comunemente che le giovani generazioni sono prive di valori, hanno perso i valori, o perlomeno hanno altri valori che gli adulti non comprendono e non condividono? Ma poi, questi benedetti adulti quali valori hanno e quanto li praticano? È dato per scontato che il mondo dei valori e dei riferimenti degli adulti in genere e giovani generazioni viaggino su binari diversi e appaiono spesso in conflitto.
A scuola, per di più, il sapere che viene impartito o trasmesso appare vecchio, inutile per le necessità del presente, mentre agli operatori educativi compete di dare sostanza alla costruzione di persone mature, capaci di scelte, preparate sul piano culturale e professionale, pronte a reggere a sfide che si ripropongono con vesti nuove anche se, magari, sono sempre le stesse: reggere i cambiamenti e costruire il nuovo. Oggi è la velocità delle trasformazioni che mette in crisi un po’ tutto. Se perciò tutto “il vecchio” sembra essere travolto o franare, è necessario costruire su nuove solide rocce.
Un ipotetico “corso di etica” è un “addestramento” per avviare anzitutto i destinatari a conoscere meglio se stessi, apprendendo a riflettere sul loro comportamento, sulla genesi delle loro spinte, sulle motivazioni e a esprimere giudizi motivati sulle proprie azioni, con lo scopo di proporre alla loro attenzione il significato del loro “essere in” (questo mondo, questo tempo).
In parole più semplici, il corso è un addestramento, composto di esercizi di riflessione, analisi di situazioni, esame in profondità di possibili indicazioni opportune.
L’ipotesi di partenza è che il fondamento di ogni educazione è quello di giungere a vivere bene con se stessi e con gli altri in modo attivo, non solo evitando di fare del male, ma producendo, creando del bene e, non di meno, fare bene. Quindi, formare persone che facciano bene e del bene, questa pare una proposta educativa molto sintetica, ma pure molto suggestiva.
Come tale, esso ha bisogno di luoghi e tempi opportuni per il suo svolgimento.
Un corso di etica così inteso non è esclusiva appartenenza ad un certo tempo scolastico, ma si estende a tanti momenti e incontri nella quotidianità, ogni volta che il dialogo tra più persone si incentra su valori, sui comportamenti, su scelte. Solo che appaiono limitate le occasioni per arrivare a questo e, quindi, dedicare del tempo apposito, si mostra come esperienza culturalmente e psicologicamente interessante.
Attraverso un percorso di ricerca anche personale, l’alunno può definire se stesso, comprendendo di essere persona capace di dare giudizi sulle azioni, sui comportamenti propri e altrui e, attraverso l’analisi delle proprie scelte, definirsi come persona libera, non omologabile in una massa.
E ancora, come comunità educante dobbiamo trovare occasioni e tempo da dedicare ai grandi temi della morale: che cosa è bene, che cosa il male?
Quando qualche avvenimento particolarmente implicante e impressionante tocca da vicino la vita della classe, senza voler fare ricorso a generici discorsi moralistici, con quali parole, appoggiandoci su quali basi, ne parliamo?
Infine, questo, chiamiamolo pure, “esperimento”, vuol essere non in senso marginale un avviamento, o più semplicemente un tentativo, di dialogo, fondamento di ogni dimensione educativa reale; potremmo definirlo una specie di corso di etica per alunni, in cui partendo dalla quotidiana esperienza di vita vissuta, prevalgono le domande circa alcune questioni fondamentali e l’analisi delle risposte che, soprattutto in modo interattivo possono essere definite.
All’interno dei quali valori ci riferiamo? Questo è da mettere subito in luce come scelta prioritaria e fondante. È anche una richiesta di onestà, per cui diciamo prima cosa si vuol vendere non mascherando la merce dietro fumosi inviti all’acquisto.
Quale etica definisce il quadro di riferimento di valori etici?
Ed ecco la prima tentazione a cui sfuggire: un grande discorso filosofico che comprenda il tutto il di più. Diamo invece una serie di finalità operative, apparentemente, semplice: scegliamo poche proposte sulle quali produrre “addestramento”, quasi dei capisaldi del nostro “corso”.
- Il valore della giustizia: essere giusti persone giuste, fare cose giuste.
- Essere per la pace svolgendo un ruolo attivo nei conflitti quotidiani essere operatori di pace.
- Divenire persone responsabili, che non si nascondono nell’anonimato, consapevoli delle proprie qualità e ricchezze, capaci di scelte e anche della loro coraggiosa, se necessario, giustificazione.
- Un cammino di scoperta della ricchezza di chi ti è accanto, non solo quindi i difetti, quelli non si scoprono, si vedono subito. Andare oltre andare oltre l’apparenza, andare a scoprire la verità dell’altro. E qui, un discorso un po’ più approfondito sulla parola “verità” non può sfuggire.
- Scoprire e sperimentare la ricchezza e il valore di una vita sobria, che si contrappone alla abbuffata della sola quantità che, inevitabilmente porta alla noia e allo nausea da indigestione.
- Indicazioni per maturare come persone vigilanti, contro l’abitudine della distrazione. Vogliamo metterci accanto la capacità di essere concentrati?
Il presunto “corso di etica” non è un insieme di decisioni, ma un cammino da fare assieme. Con la consapevolezza che l'agire, umano non è qualcosa di prefissato da trasmettere, ma una costruzione un work processing in termini moderni usuali, che non può non coinvolge l'insegnante. Tentando di cambiare gli alunni, l’insegnante non può che alla fine cambiare se stesso, costruendo, o meglio trovando, il suo pezzetto di “verità”.
Indirizzato a chi? Non credo vada fissata una classe o un'età ben precisata. Ogni percorso va adattato alla capacità alla sensibilità e al contesto con cui chi sperimenta si confronta. Seguiremo, come indicato, la forma del dialogo in cui trovano spazio e attenzione le risposte date alle provocazioni poste dall’insegnante.
Ed ora siamo in grado di dare inizio al nostro “esperimento”.
- PREMESSA
- FARE – NON FARE; GIUSTO – SBAGLIATO?
- ANCORA SUL GIUSTO-INGIUSTO
- PARLIAMO UN PO’ DI “CORAGGIO”
- EMOZIONI PER CONOSCERE E RICONOSCERSI
Le favole terminano con “e vissero felici e contenti”.
L’espressione non è mai: “visse felice e contento”, il verbo è sempre al plurale. Di solito si parla di un principe e una principessa che dopo tante sventure e difficoltà trovano l’amore, per cui andrebbe completata la frase “vissero felici e contenti nell’amore”.
E se non fosse una favola?
In fondo, in questa vita si può essere anche felici? Ecco una domanda che forse raramente viene posta. Ma quando noi parliamo di etica, in maniera diretta o indiretta, è questa la questione fondamentale.
Se al termine della lettura o del racconto di una favola chiedessimo ai nostri alunni di dare un contenuto, di esemplificare l'espressione “vivere felice e contento”, quali risposte darebbero? Varrebbe la pena di fare un piccolo test.
E per noi adulti quale potrebbe essere la risposta? Ci possiamo definirci felici e contenti? Mah. In qualche momento forse, ma per la gran parte del tempo che ci è assegnato...? Non siamo magari neppure infelici, ma certamente tanto, tanto preoccupati. Del presente, del futuro assai più probabilmente.
E se provassimo comunque a tracciare la strada, dare delle coordinate?
“Felici e contenti”. Il dizionario ci aiuta a capire un po' più a fondo il significato profondo di questi due aggettivi.
Felice è colui che ha raggiunto i propri desideri. È stato appena regalato l'ultimo modello di iPhone. Sicuramente un momento di felicità per chi lo ha avuto in dono. Ma poi questo momento passa presto. Nelle favole, tuttavia, questo non è un momento di passaggio, è un momento che si estende per tutta la vita.
Contento. Il principe e la principessa nella favola hanno raggiunto lo scopo per cui hanno combattuto e lottato contro tante difficoltà. Sono soddisfatti perché vincitori. È contento colui che ha raggiunto uno scopo. Nella vita reale (e non nelle favole) finiscono le scuole medie con un buon risultato. Certo ha inizio la tappa successiva, ma per ora intanto sento che sono cresciuto, ho affrontato il primo esame impegnativo della mia carriera, ho dimostrato a me stesso e ai genitori che sono capace. Sono perciò veramente contento.
E, quindi, diamo inizio al nostro cammino provando ad “analizzare”, cioè esaminare in profondità con domande e cercare di dare risposte.
Immaginiamo questa situazione (tutt’altro che puramente ipotetica!).
In una classe terza media Francesco che è un ragazzo timido e, come si suol dire, un po’ complessato, è preso di mira in modo assai pesante da un gruppetto di bulli presente a scuola, che lo opprimono praticamente ogni giorno. Francesco non ha mai avuto il coraggio di denunciare questa situazione, per cui ogni giorno è sempre più depresso e il suo rendimento a scuola ne risente pesantemente.
Giovanni e Marco, due suoi compagni di classe, anche se non proprio amici di Francesco, conoscono molto bene quello che avviene e ne hanno parlato più volte tra loro.
A questo punto dal nostro immaginario racconto discendono due domande:
- Che giudizio danno su quello che avviene attorno a Francesco?
- Cosa pensano di fare?
Giovanni e Marco tra loro potrebbero valutare la situazione in vari modi.
- Esprimendo un giudizio assolutamente negativo: “Certe cose non dovrebbero assolutamente succedere mai!”, e poi fermarsi qui.
- 2.Potrebbero invece esprimersi in giudizi più sfumati: “I compagni non si comportano bene, Non “dovrebbero, ma”, santo cielo, anche Francesco non si dà una mossa! È sempre così complessato. Dovrebbe (lui) avere il coraggio di parlarne con gli insegnanti, fare intervenire i genitori...”
Attenzione: Giovanni e Marco sono ancora da parte di Francesco, ma con toni più sfumati, quasi assegnando a lui una parte della colpa della situazione, più o meno cercando una scusante per i bulli.
Diamo per scontato che, salvo casi particolari, i compagni di classe non si schierino dalla parte dei bulli; non è raro, tuttavia, che emerga anche una loro piccola parte di collaborazionismo [1] diventando un po’ complici (“perché in fondo un po’ di sadismo nell’animo umano c’è, specialmente nei ragazzi!”).
- 3.Oppure, e questa è forse la scelta più frequente, preferiscono chiamarsi fuori secondo la regola sottintesa: Ma noi che c’entriamo? Non sono fatti nostri, Che se la vedano tra di loro!
Scegliere
A questo punto i nostri due alunni, senza evidentemente essere pienamente consapevoli, sono chiamati a una scelta. Da che parte stanno? Dalla parte di Francesco, al quale dimostrano la loro simpatia e solidarietà, o si sentono piuttosto dalla parte dei bulli, che magari, apparendo più forti spregiudicati, esercitano anche un certo fascino: Piacciono perché sono duri, sono al centro dell’attenzione, per cui, anche se possono talvolta esagerare… In fondo, per qualche scherzo un po’ pesante....
Se si deve aprire un confronto con un gruppo di ragazzi presentando loro questa possibile situazione, iniziamo proprio dalle possibili scelte e dall’analisi delle loro motivazioni che essi presentano, discutendo sulle conseguenze, gli effetti, di ciascuna di esse.
A questo punto si deve procedere presentando la seguente domanda: “Noi, Giovanni e Marco, possiamo fare qualcosa per Francesco?”.
E se Giovanni e Marco si pongono la questione: “Forse dovremo fare qualcosa noi”, devono discutere tra loro “Quale è la cosa giusta da fare?”
Entrano qui in gioco non soltanto il loro giudizi fondamentali sul fatto in sé, ma si aggiungono ulteriori valutazioni, ad esempio quello della convenienza. “Ma noi che c’entriamo? Sostituiamo Francesco parlandone al posto suo con l'insegnante? Ma scherziamo? Poi passiamo per quelli che fanno la spia? Sì, però a Francesco bisognerebbe dare una mano…, ma come?”
L’adulto, in questo caso l’insegnante, in una analisi laboratoriale della situazione, si confronta con gli alunni, analizzando il loro processo di presa di coscienza della situazione: che cosa si attende che facciano i protagonisti? Qual è la scelta che si aspetta da essi?
Probabilmente riterrebbe giusto che i ragazzi, coraggiosamente, denunciassero infatti, certamente non che affrontassero da soli i bulli. Ma si rende conto anche, sempre all’insegnante, che comunque non è una scelta facile per dei ragazzi.
E se, al contrario, i due ragazzi solidarizzassero in parte con i bulli? Diamo per scontato che i nostri siano sempre così “buoni” e “bravi” da essere immuni da una qualche forma di contagio? Se risultasse ciò, l’insegnante dovrebbe porre se stesso la domanda: “Che cosa posso fare perché in essi maturi una diversa consapevolezza?” Il Gioco dai ragazzi ritorna quindi all’insegnante.
I nostri due amici sono portati perciò a riflettere in modo più approfondito.
Motivare la scelta
Inizia così un dialogo con gli alunni: fra le varie possibilità di comportamento e di reazione che riuscite a vedere, quale vi sembra la scelta migliore? Perché? Ci sono altre scelte che magari all’inizio non avete individuato?
Si vuole approfondire proponendo una ricerca di quali sono le vere motivazioni che sono all’origine di quella scelta; ad esempio scoprire che, sotto sotto, la scelta di starsene fuori può esser fatta per “convenienza”. Marco e Giovanni sanno che così possono evitare possibili noie.
Ma si può anche scoprire che una determinata scelta viene preferita per “imitazione”: secondo la regola che “noi faremmo così perché è quello che fanno tutti”.
E allora come scegliere? Quali regole seguire per scegliere bene?
Il passo successivo è proporre l’idea che ci sono certamente scelte importantissime (tuttavia le grandi scelte, ad esempio, la strada della propria vita, sono segnate e generate da una serie di scelte sequenziali altrettanto importanti anche se meno appariscenti) e scelte quotidiane che tuttavia hanno un forte peso perché indirizzano, formano il carattere, rendono la persona capace di praticare quelle che, con termine di cui giungeremo a parlare più avanti, chiamiamo “virtù”.
Come possiamo definire una scelta quotidiana importante?
Un criterio per distinguere è l’analisi delle conseguenze.
I problemi di Francesco e la sua qualità di vita oggi dipendono certamente da quello che possono fare genitori e insegnanti. Ma, siccome sono chiamato in causa dal fatto che sono venuto a conoscere di qualcosa che sta succedendo, il loro successivo svolgersi dipende anche da quello che decido io di fare o non fare: cioè starmene fuori o farmi carico del problema non è la stessa cosa per Francesco. Ha delle conseguenze.
Analizziamo: che cos’è una scelta?
La scelta, infatti, è il fondamento dell’etica[2] e del comportamento umano. Esso, nella sua totalità, è composto di istintività e di scelte: più o meno consapevoli, riflettute meditate, condizionate, indirizzate… E, si spera, libere.
Osserviamo come il significato della parola “giusto” viene usata nei tre seguenti esempi.
- Laura è chiamata alla lavagna per eseguire una espressione algebrica. Siccome è brava svolge questo compito velocemente, applica correttamente dei procedimenti, di cui è in possesso, e alla fine l’insegnante la gratifica con un "brava-giusto ![3]", intendendo dire è giunta al risultato al quale doveva arrivare. Qualsiasi altro risultato sarebbe stato “sbagliato”.
Ma Laura non ha dovuto né avrebbe potuto scegliere. Quella è la strada e quella lei ha percorso.
- Luca, invece, non è bravo in matematica, ma al termine della terza media deve scegliere in quale scuola proseguire gli studi. Sì lascia trascinare dai due amici più cari e con loro si iscrive la liceo scientifico, nonostante le perplessità dei suoi docenti. Ma la scuola liceale è proprio a due passi da casa sua, non devo prendere i mezzi pubblici e quindi posso dormire di più al mattino, e poi mantengo la vicinanza coi i miei amici... L’impatto al nuovo anno è disastroso, Luca dopo qualche mese comprende di essersi iscritto alla scuola sbagliata e pensa già a un ritiro con relativo cambio. Quindi Luca ha fatto una scelta sbagliata, cioè il contrario della scelta giusta.
Luca al momento della scelta ha chiaramente commesso un errore, ma perché? Si è fidato di poche informazioni, e per giunta quelle che non gli servivano, anzi… Doveva al contrario valutare quelle “giuste”: le sue attitudini e confrontarle con le materie e le difficoltà che avrebbe incontrato nella nuova scuola.
- Giorgio Perlasca, uno fra i tanti non ebrei che hanno rischiato la loro vita per salvare gli ebrei e tutti perseguitati durante l’Olocausto, per avere salvato 5500 Ebrei ungheresi durante l'occupazione nazista è stato proclamato “Giusto fra le Nazioni” dal Governo israeliano. Il titolo è sicuramente meritato perché le sue azioni, il suo coraggio e il non aver calcolato il rischio personale ha salvato delle vite umane.
Dai tre esempi di uso della parola “giusto” osserviamo che nel primo significa conoscere e osservare rigorosamente delle regole, nel secondo la scelta doveva essere preceduta da appropriate valutazioni. Ma queste sono state oscurate da altre: se Luca avesse riflettuto di più…
Nel terzo esempio che cosa ha orientato verso una scelta una scelta rischiosa? Il personaggio non aveva alcun obbligo, non doveva seguire una strada già fissata, anzi… Alla fine però ha messo in gioco la sua vita. Tutti diciamo che “ha fatto la scelta giusta”. A muoverlo (pensiamo) è stato non un calcolo, ma una spinta interiore: la compassione, comprendere che non poteva abbandonare altri uomini, anche se per lui erano degli sconosciuti, alla violenza e al male, che proprio lui, e non altri, doveva fare qualcosa, anche correndo dei grossi rischi…
Comprendiamo bene l’espressione inglese “I care”: significa mi sta a cuore, non sono indifferente a tutto ciò che mi circonda e, anche se non posso fare nulla, mi sento coinvolto. Quel fatto non mi lasci indifferente. Il suo contrario I don't care è illuminante: non m'importa, ma anche: me ne frego. Certamente un fatto sconvolgente, una disgrazia capitata a un compagno, ma anche a un popolo, mi tocca profondamente, potrei limitarmi però a “compiangere”, ma la partecipazione emotiva porta l’attenzione verso l’altro, alle sue vicende, mi spinge a dare dei segnali attivi[4] nei suoi confronti.
Osserviamo qui che l’espressione citata non è un qualcosa che è innata, o forse un po’ è anche innata nell’animo umano, ma deve essere nutrita coltivata per potersi esprimere, anche perché deve combattere contro spinte opposte: l’egoismo, la paura, l’indifferenza… Tutte qualità, anche queste, che un po’ sono innate.
Basta riflettere un attimo e ci si rende conto subito che “fare scelte” è una attività che facciamo tutti i giorni.
Andare a scuola quotidianamente non è certamente una scelta, è un obbligo, ma decidere di impegnarsi in materie scolastiche anche se non eccessivamente entusiasmanti questo non è proprio un obbligo a cui non possiamo sottrarci, semmai l’impegno nello studio possiamo giudicarlo altamente consigliato da ogni tipo di raccomandazioni.
Impegnare il tempo libero leggendo un libro o giocando con la playstation può essere considerato per un determinato giorno una scelta scarsamente rilevante. Se, tuttavia, un ragazzo non legge mai un libro e passa interi pomeriggi davanti alla televisione, beh, questo non è del tutto senza importanza!
Riflettere su quello che è lasciato alla libera decisione della persona in una giornata, talvolta può essere considerato una specie di “esame di coscienza”, come si faceva tanto tempo fa: perché l’ho fatto? Potevo fare una cosa diversa? Cosa ci ho guadagnato o ci ho perso? Alla fine, cosa mi resta…?
Rappresentiamo nel nostro dialogo con gli alunni la scelta con un bivio (o un trivio, se si vuole, un quadrivio…): strade non parallele che portano a percorsi diversi. Se ci accorgiamo di aver preso una strada sbagliata, possiamo decidere di tornare indietro, ma, nel frattempo, abbiamo perso tempo, dobbiamo lasciare persone e luoghi conosciuti (quelli che danno pure sicurezza) e allo stesso tempo, incontrare e conoscere persone luoghi nuovi. Ciò è faticoso e spiega, in parte, perché è poi così difficile convertire le proprie scelte.
Attenzione però: ci sono scelte che non possono essere assolutamente cambiate: la persona che assume droghe e poi, guidando, uccide una persona può anche ammettere una scelta sbagliata (aver guidato sotto l’effetto alcool-droga), ma il risultato della sua scelta non può più essere cambiato. La conseguenza della sua scelta è definitiva ir-reversibile, non può essere cambiata.
Qual è il segreto di una scelta giusta, o se vogliamo, di una buona scelta?
I due aggettivi (buono e giusto) vengono usati indifferentemente nel linguaggio comune, ma non sono sinonimi.
Quante volte noi usiamo nel linguaggio corrente l’aggettivo buono. Esso si aggiunge a una quantità di sostantivi: un buon piatto di pastasciutta (= appetitosa), buon livello di apprendimento (indica la qualità di un apprendimento…) ma anche "buono a nulla" cioè incapace a fare qualcosa, e in questo caso buono ha un significato negativo, contraddittorio.
Quindi "buono", aggettivo utilizzato in moltissime espressioni molto diverse da loro, da solo non indica granché, è il sostantivo che lo qualifica, che gli dà significato: aiutare un vecchietto ad attraversare la strada, dicono, fosse la “buona azione” che doveva compiere il bravo boy scout! Fare lo sgambetto a una compagna in classe è una azione, ma quanto a…buona!
Sono quindi l’intenzione e il risultato che accompagnano una qualsiasi azione che la qualificano come “buona”, “cattiva” o del tutto indifferente.
Una bella domanda: che cosa pensare di coloro che fanno la guerra per una “buona” causa? E fare la guerra per una giusta causa? Sono affermazioni diverse?
Buono e giusto poi non sono sinonimi se pensiamo all’uso del loro contrario. Nell’uso quotidiano “buono” si contrappone a cattivo, “giusto” richiama come contrario l’aggettivo sbagliato.
Una buona scelta nel linguaggio comune è certamente quella che risulta vantaggiosa, che offre dei vantaggi. La scelta di Marco e Giovanni di starsene fuori dalle beghe appare, quindi, come una buona scelta? Probabilmente per i nostri due sì; ma noi potremmo indicarla piuttosto come una scelta "furba". L’intervenire a favore di Francesco avrebbe come vantaggio la stima e la lode degli adulti, ma compenserebbe i grattacapi con il gruppetto dei bulli? Ecco che qui entra in gioco il calcolo della convenienza.
E se noi diamo all’aggettivo "giusto" il valore di "sbagliato”, la scelta dei due compagni (stare alla larga dai fastidi) è sbagliata? Quante volte in classe si sente l’espressione (di solito rivolta a un'insegnante): "ma non è giusto!", nel senso che una iniziativa non va bene, dovrebbe esser fatta in maniera completamente opposta.
Qui dipende dal giudizio che diamo alle azioni. È sbagliata se noi giudichiamo che essi avrebbero dovuto comportarsi in modo diverso, il loro comportamento alla fine ha contribuito, senza che essi ne abbiano direttamente preso parte, all'infelicità di Giovanni.
Può succedere che buono (attenzione nel senso indicato sopra) e giusto vadano in conflitto.
Succede quando qualcuno vede una cosa “giusta”, quindi da fare e vorrebbe farla, ma poi per qualche altro motivo non la fa. Si distingue allora tra teoria e pratica (in qualche modo diventa un po’ meno “buona”). Questo è ciò che accade a tutti i giorni. Si è vero dovrei studiare di più l'inglese ma se a me non piace? Però è vero studiare l'inglese è molto più vantaggioso/buono per il futuro ma ora costa fatica e quindi ora trovo più soddisfazione (cioè piace di più) a fare dell'altro.
Posso vedere, propormi di scegliere, ma non basta, devono essere messi in atto le energie e i mezzi per dare esecuzione, realizzazione alla scelta.
E qui entrano in gioco i “Giudizi”
Quando ci viene detto di fare qualcosa, solitamente il comando, l’invito, l’ordine, come vogliamo considerarlo, è accompagnato da una motivazione; è il famoso “perché”: devi impegnarti a studiare di più l’inglese perché… E qui i motivi sono infiniti.
Le motivazioni solitamente vengono da fuori, e spesso non sono ben viste: ordini, consigli, incitamenti, ma talvolta si accompagnano a scoperte personali: devo studiare di più l’inglese perché così si aspettano insegnanti e genitori, ma guarda un po’, è anche divertente chattare con coetanei di oltremanica! La motivazione esterna si incontra con una personale ed entrambe vengono così rinforzate.
Nel frattempo, ci sono dei percorsi di ricerca da mettere in atto per poter dire di aver fatto la scelta giusta, o almeno preferibile ad altre: procedere alla successiva realizzazione delle varie conseguenze che da essa discendono.
Nel caso che abbiamo posto all’inizio potremmo chiedere ai nostri due protagonisti chiamati in causa: ma per voi chi è Francesco? Un semplice compagno di classe, un amico, un caro amico al quale ci sentiamo legati molto... In base alle risposte può emergere quanto ci si senta coinvolti nelle vicende di Francesco e quanto si è disposti a "pagare" per dargli una mano.
Ma anche se F. non è assolutamente il "grande amico di una vita", ma un semplice compagno di classe, non è difficile avvertire “dentro” che c'è qualcosa che ci lega a lui ed è il senso di solidarietà, da cui discende un appello alla responsabilità.
Se ci sono cose che non vanno anche se non mi riguardano direttamente, tuttavia tutti abbiamo il dovere di non essere indifferenti e sentirci responsabili.
Così se la scelta è la prima metà dell’operare, il giudizio che accompagnano a una scelta ne è la seconda, perché in fondo l'etica è composta di comportamenti, cioè insieme in cui si fondono scelte, motivazioni interne od esterne, giudizi con cui le accompagniamo. Ogni scelta, infatti, è unita a uno più o meno nascosto giudizio: l’inglese lo devo studiare, va bene, ma non mi piace.
Ogni giorno noi esprimiamo giudizi su qualcosa (è bello, brutto…ci piace, non ci piace…, non vale niente…) e su qualcuno (è simpatico, antipatico…). Quando Giovanni e Marco si dicono: “ciò di cui è vittima Francesco non dovrebbe proprio succedere”, essi esprimono esattamente il loro giudizio.
Potremmo chiamarlo una loro opinione, va bene lo stesso, per ora consideriamo sinonimi i termini, giudizio è opinione, faremo poi delle distinzioni.
Talvolta però assegniamo a un giudizio un determinato valore, inoltre avvertiamo che quel giudizio è importante, ci tocca, ci coinvolge, lo sentiamo dentro… Esso ci spinge a fare qualcosa, almeno come spinta interiore, anche se poi non siamo capaci di tradurre ciò in comportamenti attivi.
Ma quanto motivazioni e giudizi possono essere tanto convincenti da mettere in atto la volontà o almeno il desiderio di entrare nel gioco? La scelta e la decisione di metterla in pratica non sono per nulla la stessa cosa nel senso che vedere che qualcosa andrebbe fatto non comporta che poi venga messa in atto.
Magari non risolverò il suo problema, ma gli faccio sentire la mia vicinanza e questo non è assolutamente una cosa da poco, però dobbiamo riconoscere che anche questo è frutto di un processo di maturazione e deve essere uno degli obiettivi e dei frutti di una “buona” educazione.
[1] Il concetto di “collaborazionismo” andrebbe forse approfondito anche nello studio della Storia, specialmente in alcuni periodi e momenti del ‘900, in particolare in presenza di dittature e di occupazione. Ovviamente, qui ne parliamo come di un sottofondo psicologico di chi in fondo si sente dalla parte del “più forte”.
[2] Qui cominciamo ad usare delle parole più tecniche, ma l'inquadramento e la loro categorizzazione si porranno proprio nello svolgimento del dialogo.
[3] Beh, è chiaro che la terminologia è qui molto approssimativa, ma nell’uso corrente ci può stare, e poi serve al nostro discorso.
[4] Un tuo compagno è gravemente ammalato, addirittura in pericolo di vita (succede!): come mi accosto a lui in una visita all’ospedale? Con quale atteggiamento? Oppure mi limito a mandargli un sms con la fatidica frase “ciao, guarisci, torna presto tra noi!”?
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- PREMESSA
- FARE – NON FARE; GIUSTO – SBAGLIATO?
- ANCORA SUL GIUSTO-INGIUSTO
- PARLIAMO UN PO’ DI “CORAGGIO”
- EMOZIONI PER CONOSCERE E RICONOSCERSI
Concludiamo ora la tappa precedente parlando un po’di responsabilità con lo spunto tratto da un avvenimento accaduto.
In una classe terza media di insegnante di italiano, che evidentemente non ha grande feeling con i propri alunni, al mattino, aprendo il registro di classe, trova scritte delle frasi ingiuriose, irripetibili nei propri confronti. Ovvie le reazioni: sulla sfuriata verso la classe, richiesta di intervento presso il Dirigente e pretesa di immediata individuazione del responsabile, con immancabili minacce di severe sanzioni verso tutta la classe se costui non fosse stato individuato.
Il responsabile, che chiameremo qui Massimo, si guarda bene dall’uscire allo scoperto, i compagni sanno benissimo che egli è stato l’autore, ma si guardano bene a loro volta dal denunciarlo.
Conclusione: grande predica e, per il momento, tutto finisce lì, ma il rapporto tra l’insegnante e la classe ne risente pesantemente sul piano del dialogo e della fiducia personale.
Analisi della situazione.
- Massimo con le sue pesanti frasi si è reso responsabile di un’azione che ha diverse conseguenze: è colpevole anzitutto verso l’insegnante al quale rivolge degli insulti in uno scatto d’ira, magari avrebbe potuto essere arrabbiato con qualche giusta ragione, ma, vigliaccamente coperto dall’anonimato, non si confronta esponendo eventualmente le proprie ragioni. In tal modo il suo disagio non è stato assolutamente affrontato, rimane, come si dice, irrisolto, probabilmente peggiorato da un senso di paura.
- Massimo, inoltre, ha gravemente mancato verso i suoi compagni; li ha messi in una condizione difficile: subire delle conseguenze anche disciplinari e immeritate ma, soprattutto, deteriorando i rapporti già evidentemente compromessi, così complicando ulteriormente la vita scolastica.
- Perciò, Massimo non ha riflettuto sul fatto che non è da solo in classe, i rapporti con l’insegnante non sono esclusivamente suoi, ma il suo gesto coinvolge altri, ha delle precise responsabilità soprattutto verso i propri compagni. I suoi difficili rapporti con l’insegnante non solo una questione solo personale.
Essere giusti
In classe. L'insegnate ai propri alunni: “domani mi studiate, oltre ai compiti assegnati, anche il nuovo capitolo di storia fino a pag....”. Risposta corale degli alunni: ma professoressa! Non è giusto!”
Cristina è una alunna svogliate e per giunta viene regolarmente in ritardo. Dopo molti richiami l'insegnante le mette una nota sul registro. Cristina si infuria, esce dall'aula, sbattendo la porta con una parolaccia rivolta all'insegnante, il quale a sua volta per Cristina propone al Dirigente un giorno di sospensione dalle lezioni. Intervento dei compagni: “Non è giusto! Cristina ha sbagliato ma è vero Cristina era arrabbiata ed è stato solo di un momento di rabbia che perso il controllo. La punizione è assolutamente esagerata”.
Analizziamo le due situazioni nelle quali viene utilizzato il termine giusto/non giusto.
Nel primo caso esso non implica grandi questioni, è solo una esclamazione di stizza per un sovraccarico di compiti. Nella seconda l'analisi della situazione è maggiormente complessa. I compagni, comprensibilmente, si sentono più solidali con la loro compagna, ma come si fa a stabilire se la punizione è stata giusta, cioè adeguata alla mancanza? Chi lo decide?
L'insegnante pare avere il coltello dalla parte del manico, è lui il giudice, propone una sentenza, anche se questa deve essere poi ratificata da una autorità superiore.
Iniziamo affermando una cosa banale: a scuola, come del resto in tutti gli altri luoghi, ci sono delle regole, scritte ma non sempre, tra queste fondamentale a scuola è che non si deve mancare di rispetto agli insegnanti. Inoltre c'è una autorità che tali regole deve far rispettare con punizioni se ciò non avviene. Questo nessuno lo mette in discussione.
Anzitutto, le regole di solito non sono messe in discussione, ma non paiono essere molto apprezzate. Sono pur sempre dei limiti. Non ci piacciono né i divieti, ma neppure gli obblighi. Vorremmo sempre fare quel che ci piace o ci fa comodo. Quando si può, sempre a basso rischio, a qualcuno piace anche di trasgredirle.
Ma perché, fastidio o non fastidio, dobbiamo osservare le regole? Innanzitutto perché ci sono. E poi perché non osservarle può comportare dei castighi. Essere, stare dalla parte delle regole vuol dire essere dalla parte delle leggi, della legalità, e questo, di solito, è più conveniente, da meno fastidi che stare "contro".
Ma è solo per questo, perché conviene?
Immaginiamo che a scuola non ci siano delle regole, tutti vanno e vengono quando vogliono, fanno i propri comodi... Ci sarebbe totale anarchia e la vita in comune e ogni attività sarebbero impossibili. Questo si capisce ed è per questo che anche gli “anarchici totali” scolastici non avrebbero vita facile, sarebbero respinti, prima che dalla scuola, dai loro stessi compagni. E su questo non ci sono grandi questioni.
Ma le regole sono sempre giuste?
Chi lo decide?
Le regole si devono sempre rispettare. La regola di rispettare i professori nessuno la discute, e quella che i professori devono rispettare gli alunni?
La punizione di Cristina con un giorno di sospensione per aver insultato la professoressa è altrettanto giusta (cioè commisurata alla gravità del fatto)? I giorni potevano essere addirittura tre oppure limitarsi a una convocazione dei genitori. Ecco un bel problemino.
Non sappiamo nel nostro esempio con quali parole l’insegnante abbia rimproverato Cristina, ma se, per caso, avesse usato parole come "sei una disgraziata, una deficiente, nella vita non combinerai mai nulla... " Beh, evidentemente in questo caso ad esse sospesa sarebbe stata la professoressa, oggi un tale atteggiamento educativo non sarebbe assolutamente tollerato, anzi subirebbe una condanna penale addirittura da un tribunale.
Se la reazione di Cristina fosse anche frutto di un rapporto difficile tra lei e la sua insegnante o addirittura tra l’insegnante e tutta la classe, la sospensione andrebbe collocata con valutazioni più complesse e il compito del Dirigente, che deve decidere sul giorno di sospensione e che, qualche volta almeno, è una persona intelligente (cioè sa "intus-legere"), cioè “leggere il fatto” in profondità, spetta la decisione finale (anche perché è bene che le decisioni siano prese da chi in un conflitto è sopra le parti).
La punizione del giorno di sospensione per Cristina, pertanto, è stato giusta o ingiusta?
Dipende da quello che era lo scopo della sanzione. Si voleva soprattutto punire e dare un esempio alla classe, oppure, dopo aver approfondite le circostanze, si sperava che Cristina comprendesse non solo la gravità del suo unico finale il gesto, ma anche la necessità di dare una svolta al proprio comportamento scolastico?
Concludendo la nostra riflessione su questa immaginaria, ma non tanto, situation, affermiamo che giusto- ingiusto e di conseguenza giusto- sbagliato dipende molto dall’attenzione del peso che vengono date a quelle che si chiamano le circostanze e l’insieme che ha determinato un gesto, un fatto.
Il gesto di Cristina resta sempre una grave mancanza, ma la sua gravità piò essere valutata in modo diverso.
Si possono anche fare “affermazioni assolute”: quello ha sbagliato, quello merita la pena di morte, quello ha fatto bene, doveva comportarsi così, si deve sempre fare così…”. Tali giudizi “assoluti” sono però pericolosi e possono portare a gravi errori.
Ci sono poi i cosiddetti principi: uccidere, rubare, è sempre non giusto e anche sbagliato per le conseguenze che comporta. Ma qualche volta è lo Stato che uccide con la pena di morte. C'è chi ritiene che di fronte a delitti gravissimi sia giusto mettere a morte il colpevole e chi invece che neppure in casi estremi si debba fa ricorso alla pena di morte perché la vita umana e sempre sacra.
Qui nascono discussioni e dibattiti a non finire e alla fine uno deve scegliere. Di solito si dovrebbe scegliere. Ma lo riprenderemo invece partendo dalle nostre solite “piccole” (?!) vicende di quotidiana vita scolastica.
La maggioranza vince. Ma è sempre giusto?
La classe 3G (proprio quella della nostra amica Cristina) ha fama di essere alquanto turbolenta, insomma ci sono due tre tipetti mica male. È ovvio che gli insegnanti faticano non poco a mantenere la disciplina.
Nel consiglio di classe di gennaio si deve decidere se la classe può partecipare al viaggio di istruzione di tre giorni assieme alle altre terze.
La discussione è accesa e si formano due partiti. Tra i docenti c'è il gruppo dei prudenti che sostiene che, data la situazione, non ci sono i livelli accettabili di sicurezza per portare la classe. Oppure, il viaggio si può fare, a condizione di lasciare a casa quei due, tre più turbolenti.
Un secondo gruppo si oppone con forza sostenendo che è fortemente diseducativo escludere, emarginare, anche se alcuni della classe possono creare problemi. Inoltre, la classe non può essere punita tutta per colpa di una minoranza.
E quindi come la mettiamo? Chi ha ragione? Chi è nel giusto?
Il caso è interessante perché vede di fronte due serie di ragioni, ciascuna delle quali ha una propria forza. Nessuna delle due è apertamente sbagliata. Come scegliere? Magari si mette ai voti e vince quella che ha la maggioranza. Nel nostro caso, purtroppo, classe resta a casa.
Tra le due possibilità indicate: si fa il viaggio o si resta a casa, esistono altre scelte? Apriamo una discussione.
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- PREMESSA
- FARE – NON FARE; GIUSTO – SBAGLIATO?
- ANCORA SUL GIUSTO-INGIUSTO
- PARLIAMO UN PO’ DI “CORAGGIO”
- EMOZIONI PER CONOSCERE E RICONOSCERSI
PARLIAMO UN PO’ DI “CORAGGIO”
A questo punto si dovrebbe cominciare a comprendere che il nostro “corso di etica” non vuole condurre i nostri partecipanti a non fare certe cose, quelle che vengono classificate “cattive”, ma propone loro percorsi dove certe cose invece vanno proposte per essere fatte e vanno fatte bene, soprattutto comprendendo perché vanno fatte.
Torniamo al nostro incontro con cui abbiamo iniziato, Giovanni e Marco. Devono prendere la decisione di confronti dei bulli che tormentano Francesco, potrebbero disinteressarsi, potrebbero parlarne con gli insegnanti.
Avrebbero pure una terza possibilità: affrontare i “persecutori” di Francesco e cercare di convincerli che il loro modo di comportarsi è decisamente “cattivo”. È una decisione molto impegnativa, affrontare persone prepotenti a testa alta richiede un grande coraggio.
Partiamo, quindi, dall’esame del carattere e del comportamento di due noti personaggi di un grande romanzo della letteratura italiana, di cui abbiamo già sicuramente sentito parlare.
Nel “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni sono presentate due figure che devono misurarsi con il coraggio. C’è Don Abbondio, il curato della parrocchia di Renzo e Lucia, il quale vigliaccamente, senza alcuna resistenza, accetta l’imposizione del prepotente signorotto don Rodrigo mettendo in un sacco di guai i due giovani. Questo personaggio che appare spesso nel romanzo è rappresentato in maniera psicologicamente attenta: una persona che non vuole noie, pavida, pieno di paure, soprattutto incapace di fare fronte a un fatto improvviso dal quale fugge.
L’espressione per cui è diventato celebre è quando, di fronte al cardinale che gli rimprovera la sua vigliaccheria, non sa che dire altro: “Il coraggio, uno, se non ce l'ha, mica se lo può dare”.
A Don Abbondio Manzoni contrappone la figura di Fra Cristoforo.
Il frate nelle sue vicende prima della conversione e, successivamente, dopo essere diventato frate mostra di avere una duplice personalità. Queste però non si annullano, ma sono contemporaneamente presenti in tutto il suo operare: è forte e battagliero, ma anche pacato, umile e dedito al sacrificio. Non sfugge, ma affronta e sa affrontare usando i toni giusti. Il suo linguaggio, a seconda delle circostanze, di solito umile e tranquillo, a volte, quando necessario, diviene impetuoso e appassionato. Ciò che lo anima è un profondo senso di giustizia, l’amore per i deboli e di impegno per la loro difesa.
Tutto ciò appare nel drammatico incontro tra Fra Cristoforo e don Rodrigo nel castello di quest’ultimo.
Quando Fra Cristoforo affronta don Rodrigo questi lo tratta in modo arrogante del tipo: “sbrigati, che non ho tempo da perdere”. Ma, “per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c’era mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con maniera arrogante”. Il tono della sua voce e gli argomenti rimangono sempre umili, ma divengono di fuoco quando don Rodrigo propone addirittura che Lucia si metta sotto la sua protezione. “A siffatta proposta, l’indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra Cristoforo valeva veramente per due”.
Allora, è vero che il coraggio uno non se lo può dare? Fra Cristoforo ha coraggio perché non ha paura, o, meglio, perché ha vinto la propria paura, sa benissimo che le minacce non lo spaventano, anche se sono reali (infatti, fra Cristoforo sarà allontanato dal suo convento) tuttavia il richiamo alla giustizia divina (il valore che lo sostiene!) gli dà la forza di non indietreggiare neppure di fronte ai violenti.
Ma, come la mettiamo per la paura?
Ai nostri allievi del corso proponiamo la riflessione che tutti abbiamo le nostre “paure” e che avere paura di qualcosa, è una esperienza comune. C’è chi è paura del buio, chi dei fantasmi, dei ragni, dei voli in aereo… Ma ci sono anche paure più serie e più profonde che possono limitare la qualità della vita: paura di rimanere soli, di non riuscire a sfondare, di perdere il posto di lavoro, la povertà, una grave malattia… Queste paure possono portare a una malattia che si chiama depressione. Chi è depresso rientra in se stesso, vive delle sue paure e nulla gode di ciò che la vita gli offre.
Tra gli adolescenti ci sono paure specifiche legate al loro crescere, o come si dice, alla loro identità: non essere accettati dal gruppo, o, peggio, sentirsi rifiutati, non è una gran bella sensazione.
E a questo punto presentiamo subito una grande regola.
Coraggioso non è colui che non ha paura, ma colui che agisce vincendo la paura. Ma, per vincere la paura, bisogna essere forti, e, per essere forti, bisogna avere delle convinzioni forti (ricordate da dove viene la forza di Fra Cristoforo?).
Immaginiamo i “coraggiosi” come persone che sanno affrontare pericoli, sfidando qualche volta la sorte, insomma in qualche modo degli eroi? Ma questo non è riservato alle persone comuni, ma solo a poche eccezioni. Nessuno sia ben chiaro è obbligato diventare un eroe!
Osserviamo ancora che vincere la paura non significa fare cose incoscienti rischiando di rompersi l’osso del collo. Non devo dimostrare agli altri che sono coraggioso perché sfido i limiti delle mie possibilità. Questo non è coraggio, ma scemenza.
Diventare persone coraggiose richiede di percorrere una strada diversa.
Gli eroi sono esaltati ma, quelli che sono coraggiosi nella vita quotidiana, forse è strano, non sono molto apprezzati[1]. Si preferisce il concetto di sicurezza. Spesso ci viene consigliato di non rischiare, rimanere in una posizione defilata, non esporci, non parlare agli estranei, stare attenti e vigili non fidarci del prossimo per non restare fregati. Insomma, restare al sicuro e non correre rischi non necessari secondo la massima: “stai attento a non esporti troppo”, che poi magari “ti prendono di mira”.
Però, a pensarci bene, questo appare come un invito a diventare “uno del gregge”, uno fra tanti. Se fai come tutti, ovviamente, nessuno ti critica. Uno che sta dentro al proprio guscio fatto di sicurezze conosciute non si avventura mai a esplorare nuove strade. Per mettersi in cammino come esploratori, ci vuol sempre comunque una certa dose di coraggio.
Succede che a qualcuno venga offerto un nuovo posto di lavoro, magari pagato meglio, ma questa opportunità comporta di dover lasciare il posto vecchio, spesso cambiare città, dove tutti si conoscono e accettare il rischio di affrontare un sacco di cose nuove. È richiesto un gran bel coraggio!
Allora uno prende paura, continua a rimanere nel proprio lavoro, anche se si sente poco gratificato, con le solite persone con cui ha già stabilito rapporti assodati. Ma, non è che questo lascia spesso posto al sentimento del rimpianto? “Guarda un po’, potevo cambiare la mia situazione così noiosa e ripetitiva, ma non ce l’ho fatta e mi tocca stare qui a far sempre le solite cose. Ho perso il treno e, forse, un altro non passerà più…”
Tutti noi abbiamo paure, nessuno escluso. Ciò che ci differenzia, però, è la volontà di riconoscerle, accettarle e affrontarle.
La maggior parte delle persone ignora queste paure, le rifiuta, non le accetta, semplicemente le nasconde, trovando giustificazioni. “Se non accetto di fare il portavoce dei compagni con l’insegnante per presentare delle lamentele è perché tanto non serve a nulla, magari non sono capace di esporre le mie motivazioni o, peggio, faccio irritare l’insegnante”[2]. Probabilmente, in quell’occasione, per quella paura hai perso l’occasione di iniziare una splendida carriera politica. Ma, forse, l’insegnante a cui “coraggiosamente” ti rivolgi non è un orco e, forse, è molto più comprensivo, attento e intelligente di quanto tu possa pensare e magari ti apprezza ed è contento che tu ti faccia avanti… Questo è quello che ti suggerisce una vocina interna. Devi avere però il coraggio di andare a vedere!
Ma se, come succede, tu rinunci a fare questo intervento, apparentemente, all’inizio, ti senti sollevato. In fondo, hai evitato un rischio. Ma non è che alla fine poi ci rimani male?
La frase: “fatti coraggio” nel linguaggio comune di solito che significato assume? La usiamo per dire a qualcuno che sta passando un brutto momento: non scoraggiarti, affronta la situazione (una malattia, la perdita di una persona cara, un insuccesso familiare o professionale…).
Ma “farsi coraggio” ha un significato più profondo.
Farsi coraggio cosa vuol dire? Lo diciamo a noi stessi nell’espressione: “devo farmi coraggio”, cioè da una situazione nella quale m’imbatto, non scappo, ma l'affronto. Mi butto dentro. Se ho paura dell'acqua so che non la supererò mai se non ce la faccio a buttarmi dal trampolino nell’acqua profonda. Perciò mi faccio coraggio e magari chiedo l’aiuto di un compagno che mi dia una spinta e poi finalmente scopro che ritorno a galla e non muoio annegato. Non è una vittoria da poco. Da quel momento divento un appassionato nuotatore.
Vincere le paure. Si, facile a parole, ma come si fa? Come in tutte le cose, ci vuole un addestramento, fatto di piccoli passi, di piccole vittorie.
Immaginiamo che uno di noi abbia una grande paura di parlare in pubblico (e una delle più comuni fobie, si chiamano così). Se uno ha la paura di parlare in pubblico, non è che la supera di colpo presentandosi a fare un discorso a nome della scuola al Presidente della Repubblica in visita alla città. Si emozionerebbe tanto da andare in crisi di panico (capogiri, palpitazioni, sudorazioni!), ma, in attesa della grande occasione e della grande vittoria sulla sua paura, può iniziare a piccoli passi, per esempio, accettando una piccola parte nella recita teatrale della scuola, imparando a leggere bene a voce alta alcuni testi anche in classe (e non è detto che anche questo sia sempre facile!). Poi su può passare a impegni con maggiori difficoltà, ad esempio, accettare di leggere in pubblico un discorso di saluto in qualche cerimonia, e così via…
Ma allo stesso tempo, facciamo intervenire in aiuto anche il ragionamento: “perché ho paura? Di cosa ho paura? E, se non ce la faccio, cosa mi succede?” Si dice che si vuole
Però, ripeto, questo è un addestramento psicologico, ma c'entra con l'etica?
- Farsi coraggio vuol dire, l’abbiamo detto, vincere la paure (non la Paura, essa in tante forme – la paure appunto - sarà sempre accanto a noi), non farci travolgere, imparare a conviverci. Guardare i faccia la paura, può essere un bel motto!
- Farsi coraggio vuol dire non stare fermo, immobilizzato, come quando un serpente all’improvviso ti sbuca sul tuo cammino oppure un’auto sembra per travolgerti.
- Vuol dire “mettersi in movimento” perché da qualche parte bisogna pure andare. Andare dove? Andare con chi?
- È qui che la vittoria sulla paura diventa una scelta etica. Cioè? Una scelta che dà significato alla tua azione. Vuol dire comportarsi da umano. Qualsiasi animale, di fronte a un pericolo, fugge. L’uomo invece ha la capacità di affrontarlo, se decide che lo si debba fare.
Dove vuoi andare, con chi e da che parte stare sono le scelte chiave. E, ora finalmente, comincia a capire che cosa è il nostro “corso di etica”.
Riassumo i punti “etici” di questo discorso:
- Non stare fermo aspettando cosa fanno gli altri;
- Fare scelte vincendo le paure esercitando e promuovendo il coraggio;
- Scegliendo gli obiettivi (per ora per forza limitati): modi di fare e compagni di cammino, con un discorso da politico “scegliendo le alleanze”;
- Non pensare che devi fare grandi imprese nella tue quotidiane battaglie. Per ora accontentati di piccole scelte e di piccole azioni, ma queste ti allenano a battaglie più grandi e a scelte più impegnative.
- E, perché no? qualche volta lasciare spazio al sogno e all’immaginazione.
Ma qui entra in gioco un’altra componente: le emozioni, di cui andiamo nel capitolo successivo a parlare
[1] "Sì, quello è stato bravo e coraggioso, ma si è messo nei guai! Tutto considerato, a esser coraggioso non gli è servito a nulla!".
[2] Questo è il classico esempio di due apparenti giustificazioni che sono solo la classica scusa per evitare di affrontare una prova.
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- EMOZIONI PER CONOSCERE E RICONOSCERSI
Emozioni per conoscere e riconoscersi
Giulia è molto brava con il violino su cui si esercita da diversi anni. Nella preparazione del saggio di Natale del teatro della città e al quale partecipano tutti gli alunni, insegnanti, genitori, a lei è stato affidato il compito di eseguire un assolo con violino mentre il coro esegue una melodia a bocca chiusa. È naturale che Giulia senta tutto il peso della responsabilità; praticamente da lei sola dipende la riuscita del pezzo centrale del saggio. Quando le è stato affidato il compito è stata presa da una senso di paura, si è messa a studiare a fondo il brano, e, avvicinandosi la data dell’esecuzione, sempre di più sente crescere la sua ansia. Ha paura di non farcela, di non essere all’altezza. Finalmente il giorno arriva, prima di entrare sul palco le tremano le gambe, ma ormai è fatta, non può tirarsi indietro. Esegue molto bene e in maniera espressiva il suo assolo di violino e un applauso scrosciante segna il suo successo. A questo punto ansia, paura, scompaiono e sostituite da una grande soddisfazione: la gioia di aver vinto la scommessa prima di tutto con se stessa.
Dal momento che era consapevole delle proprie capacità, era la sua ansia, la sua paura che lei doveva vincere. Ne è uscita vittoriosa: ora si sente più sicura e più pronta anche per prove future.
E se, a causa delle resistenze interne, avesse rinunciato all’incarico? Probabilmente le sarebbe rimasto un sentimento di rimpianto che si accompagna a un ulteriore sentimento di tristezza per una grande occasione perduta.
Giulia era orgogliosa dell’incarico affidatole; delle emozioni tuttavia agivano da freni, ma altre forze agivano in senso positivo e la spingevano a mettersi alla prova.
Perché queste hanno vinto? Sicuramente Giulia è stata aiutata dall’incoraggiamento del proprio insegnante di strumento, dall’avvertire che i genitori si aspettavano, orgogliosi di lei, che si mettesse alla prova (anch’essi, in verità, mossi un po’ d’ansia), e, sempre da parte di Giulia, da qualcosa che noi chiamiamo voglia di farsi notare, mettersi in mostra, emergere, in altre parole far vedere che lei è brava.
Immaginiamo ora che per un fatto esterno o travolta dall’emozione, Giulia avesse, come si dice, fallito la prova. Cosa sarebbe successo? Sicuramente nulla di grave, magari un tiepido applauso di incoraggiamento avrebbe comunque segnato la fine della sua maldestra esecuzione.
Ma per la nostra brava violinista cosa sarebbe cambiato? Anche in questo caso le sarebbe rimasto a lungo il ricordo dell’esecuzione, ma stavolta un gran brutto ricordo: “non sono stata all’altezza! , Ora i compagni daranno la colpa a me dell’insuccesso dell’esecuzione del coro, mi prenderanno in giro e io mi vergogno profondamente di andare a scuola col mio violino...” Peggio ancora: “I miei genitori penseranno che hanno buttato via i soldi per l’insegnamento …”. Naturalmente questo non è assolutamente vero, ma dentro di Giulia, magari perché non vuol parlarne con i genitori, l’insuccesso può diventare un senso di fallimento. E, a questo punto, il corso di violino potrebbe anche finire lì.
In Giulia, ogni volta che rivive quell’esperienza, ri-vive quella gran brutta emozione: è come se si sentisse in colpa, cioè vive “nel presente” come non aver risposto “allora” alle attese che gli altri (insegnante, genitori, compagni si attendevano da lei). Quindi, la sua emozione negativa continua a esercitare la sua influenza anche per molto tempo. È come se la sua esperienza negativa si ripetesse ogni volta.
Ora che abbiamo richiamato termini come: emozione, sentimento, i nostri partecipanti al corso chiederanno: “ma tutto questo, cosa c’entra con l’etica?”
Intanto osserviamo che la nostra Giulia aumenterà la sua passione per violino o butterà lo strumento in soffitta non tanto per risultato eccellente o deludente della sua prova, ma per come lei l’ha vissuta, che tracce positive o negative ha lasciato la sua esperienza.
Questa, se positiva, la incoraggerà, ma, se negativa, dovrà essere superata e vinta. Non è giusto buttar via una gran quantità di sacrifici per un incidente di percorso.
Superare e vincere le emozioni negative, imparare a vivere fino in fondo quelle positive, riflettere sui propri sentimenti, ecco, insieme a tanti altri, un bel compito per l’etica.
La parola esperienza la usiamo qui per indicare un avvenimento, a cui partecipiamo come attori o pure da semplici spettatori, che avvertiamo “dentro di noi”[1] come importante, e che ci lascia ricordi che si prolungano nel tempo e che facilmente ritornano alla nostra mente, in qualche modo rifacendosi a vivere le emozioni provate quella volta, in qualche modo ci accompagnano a lungo e, spesso, influenzando le nostre decisioni e il nostro orientamento. Un po’ come dice il celebre detto: “il primo amore non si scorda mai”.
Imparare a conoscere le proprie emozioni è come fare un viaggio all’interno del proprio io. È, soprattutto, una grande esperienza di conoscenza di se stessi. Riferendoci alla nostra definizione di “esperienza”, dobbiamo affermare che ogni esperienza è sempre un aumento della conoscenza. Le emozioni sono:
Un luogo per incontrarci e incontrare gli altri
Ogni esperienza misura noi stessi all’interno del mondo in cui viviamo. Un concetto un po’ difficile? Qui lo spieghiamo un po’. Comunque, non si può capirlo se non entrando in noi stessi e analizzando quello che sentiamo, proviamo, di fronte a fatti che ci capitano: le emozioni, appunto.
Alcuni studiosi hanno indicato le più comuni emozioni, di cui tutti in qualche momento abbiamo fatto prova: rabbia generata dalla frustrazione[2] e si può manifestare attraverso l’aggressività. La paura: è un’emozione dominata dall’istinto. Si può essere talora tristi in seguito alla perdita o al non raggiungimento di uno scopo. Al contrario, la gioia è quell’emozione positiva quando si ritiene di aver soddisfatto un’importante desiderio.
E se per caso mi arriva inaspettata una bella, o anche purtroppo brutta, notizia? La sorpresa è l’emozione che caratterizza quel momento. Sono in ansia quando attendo qualcosa che deve capitare ma ancora non ne conosco la caratteristica: il sentimento di ansia e di incertezza caratterizza la fase dell’attesa. Disgusto e senso di ribellione sono pure essi emozioni non rare.
Infine quando accettiamo tranquillamente una situazione è il sentimento della tranquillità che ci distingue (ma, attenzione, non va confuso con il disimpegno o la rassegnazione: tranquillità è una calma interiore che non allontana anche lo sforzo di comprendere e di migliorare, in altre parole non va confuso con pigrizia o indifferenza).
Non sono certamente tutte, ma sono quelle che tutti tante volte abbiamo provato. Guai se non avessimo emozioni! Tutta la nostra vita sarebbe caratterizzata da una noia, come si dice, correttamente, mortale.
L’emozione negativa posso tentare anche di sfuggirla, ma è sempre possibile? Evidentemente, no. Di fronte a un voto, un giudizio negativo pesante, io posso fare anche l’indifferente all’esterno, ma so che in realtà questo è solo apparenza, le mie emozioni negative di rabbia, di tristezza, le vivo, e come!
Lavoriamo sulle emozioni e apprendiamo da esse
Qualche suggerimento da mettere in pratica:
- Esercitiamoci a ricostruire le emozioni che ci hanno accompagnato in qualche momento della giornata provando descriverle.
- Proviamo a dare loro un nome e diamo un nome al loro contrario. “Ho provato un senso di rabbia per quell’offesa che ho ricevuto dalla mia amica Federica. Il contrario di rabbia, con qual parole posso indicarla?[3]”.
- Altro utile esercizio pratico: descriviamo come ci sentiamo dopo aver fatto una scelta tra due possibili azioni, ad esempio: “Ho scelto di leggere un libro invece di guardare la televisione”. Abbiamo fatto fatica a decidere? Siamo stati tanto combattuti tra le due scelte o l’abbiamo fatta senza tanto pensarci su?
- Un esercizio più difficile, ma proviamo a svolgerlo: l’emozione è un modo di esprimere un mio sentimento profondo. Che cosa mi dice il mio corpo attraverso le emozioni? “Sono furiosa con Federica, ma perché? È ‘solo’ perché mi ha offesa, ma perché allora io ho provato una reazione così intensa?” Andiamo a cercare la radice della nostra emozione, in altre parole, impariamo a ragionare su di esse, magari non subito (impossibile!) ma dopo un po’, con calma.
- Questo modo di confrontarci e di ragionare su quello che noi proviamo emotivamente diventa una esperienza molto importante: impariamo così a dialogare con noi stessi.
Anche se tentiamo di ridurre al minimo le esperienze negative, queste in varia misura ci salteranno sempre addosso. È allora importante imparare a gestirle, ma non solo quelle tristi, anche le esperienze positive.
Giulia, la nostra brava violinista, che ha avuto un grosso successo al saggio annuale, deve capire che ancora non è in grado di suonare al teatro La Scala. Se questa è la sua ambizione, deve mettere in conto tantissimo tempo e tanta altra fatica, o, al contrario, capire che il fallimento della sua prova ha delle cause: una certa impreparazione tecnica, troppa fretta, ansia e paura…, Ma non tutto è da buttar via, c’è solo da correggere: capire dove stava la sua impreparazione tecnica o la sua troppa emozione e tutto questo va affrontato con decisione, facendo esperienza anche degli errori.
- Una emozione non va confusa con un impulso. Un compagno mi pesta un piede in cortile e a me viene l'impulso di restituire un calcio (“input-output”): un fatto esterno provoca una reazione fisica, che si riflette nel mio corpo. Di solito, quindi, è una reazione istintiva a uno stimolo fisico o psicologico (un insulto) esterno. È un impulso istintivo e non posso dire che l’eventuale dolore fisico, del tutto momentaneo, vada confuso con una emozione.
- Tuttavia, le emozioni possono essere molto intense tanto da apparire immediatamente attraverso quello che si chiama il linguaggio del corpo: “rosso di vergogna”; “bianco come un cencio” (dopo un gran spavento); “preso da incontrollabili agitazione”, al momento di essere chiamato a sostenere un esame…
- Una emozione non va confusa con il sentimento. Il termine per avere significato deve essere accompagnato da un complemento di specificazione. Ci aiutano alcune specificazioni del Dizionario Treccani: un sentimento di gioia ineffabile; un sentimento nuovo si faceva strada nell’animo suo; sentimento paterno, materno, o di padre, di madre; volle ferirlo nel suo sentimento patriottico o di patriota; sentimento religioso; sentimento d’orgoglio, di superbia, d’umiltà, di avvilimento; sentimento d’odio, d’invidia, d’antipatia, d’avversione; sentimenti di vendetta; vivere.... Di qualcuno di questi sentimenti abbiamo fatto esperienza?
Il sentimento assomiglia all’emozione, che può essere anche momentanea, ma ha una durata nel tempo molto più lunga e, soprattutto, un’origine incerta. Provare sentimento di antipatia verso alcune categorie di compagni non è qualcosa che nasce da un fatto, cioè dall’esperienza (anche, qualche volta), ma nasce e si sviluppa in maniera molto più incerta, nascosta.
Possiamo metter nell’elenco un sentimento di noia, quando arriva quell’insegnante (ma la noia qui e di origine abbastanza certa…), di demoralizzazione (“qualche volta non so neppure io perché mi sento svuotato…”), la sensazione che l’ambiente domestico sia limitante, non permetta di esprimersi e perciò suscita anche sentimenti di ostilità (a 12 anni si comincia a pensare, ma anche a dire, che i genitori non capiscono niente…)
Proviamo a cercare una definizione di “emozione”? Ecco due celebri citazioni:
“L'aspetto delle cose varia secondo le emozioni; e così noi vediamo magia e bellezza in loro, ma, in realtà, magia e bellezza sono in noi”. Scriveva Kahlil Gibran . È attraverso le emozioni che noi vediamo, affrontiamo, giudichiamo il mondo che ci circonda.
Perché, invece, l’emotività, cioè le emozioni espresse all’esterno, soprattutto il pianto, è considerato segno di debolezza? Permettere di commuoverci non è una qualità da ragazzine. Quante volte tra compagni parliamo di nostre emozioni? E quanto più difficile parlarne con gli adulti?
Confidare le proprie emozioni significa avere fiducia in chi ci è accanto, cioè non mi prenderà in giro, ma ho speranza che dopo la mia manifestazione emotiva mi guarderà con simpatia e comprensione, nella migliore delle ipotesi, condividerà le mie emozioni e i miei stati d’animo. Proverà, forse, un sentimento di “empatia[4]” nei miei confronti. Guidare le emozioni non per chiudersi in se stessi, a rimuginarci su, ma per aprirsi. Se ho provato delle emozioni, posso capire le emozioni dell’altro.
Frenare, soprattutto soffocare le emozioni può dire vivere meno, in un cerchio chiuso, fatto solo di calcoli e di ragionamenti. Calcoli e ragionamenti però non riempiono la vita.
Artisti, poeti, sono persone che vivono intensamente le loro emozioni e sentono il bisogno di comunicarle all’esterno, non tenerle nascoste.
Quanto sia importante necessario il governo delle emozioni
Le emozioni vanno governate, ma soprattutto vanno indirizzate, perché le emozioni sono il lato scoperto dei desideri. E i desideri sono il lato nascosto dei nostri bisogni. L’utilità dell’emozione consiste nel presentarsi come un segnale in grado di orientare il comportamento e le decisioni.
Andrea, un caratterino mica male che non tollera sgarri, ha scoperto che quello che credeva il suo migliore amico Giacomo lo ha “tradito” perché ha messo in giro una sua confidenza cerca una simpatia, anzi un po’ più della simpatia, che egli prova verso Cristina. Ora, il suo primo sentimento, il primo impulso di Andrea, è di rabbia e di delusione. Gli verrebbe voglia di troncare ogni rapporto con il suo vecchio amico. La sua è una reazione naturale, istintiva, comprensibile. Però Giacomo non l’ha fatto perché gli è nemico, la sua è stata solo una leggerezza, non ha considerato che tutti siamo gelosi dei nostri sentimenti, che non vanno spifferati in giro.
A questo punto, quindi, dopo il primo momento di rabbia, nasce in Andrea una domanda: è “giusto” che io dimentichi tutti i momenti belli di amicizia trascorsi con Giacomo o, forse, non è che dovrei piuttosto cercare di esprimergli tutta la delusione provata in seguito a quello che ha provocato, in modo che egli possa capire il male che, involontariamente, mi ha fatto?
Andrea è di fronte a una scelta: seguire il suo immediato istinto (basta è finita!) o quello invece di cercare di far capire a Giacomo quanto abbia sbagliato e cercare di ricreare il rapporto. La prima scelta è una scelta di chiusura, la seconda di dialogo. In questo caso però Andrea deve soffrire un po’ perché incontrare di nuovo Giacomo gli costa e non poco.
Andrea perciò dovrà combattere pure contro se stesso, vincere il suo impulso. E questo lo può fare perché sa riflettere, ragiona, sceglie quello che giudica il meglio: l’amicizia è un valore che va salvato, decido di vincere il primo impulso, alla fine è la decisione che prende Andrea.
Altro punto fondamentale è quello di non lasciarsi sopraffare dalle emozioni. Una grande delusione comporta sofferenza ma questa non deve diventare mai tanto grave da paralizzarci e a portarci a fare cose di cui successivamente ci pentiamo. Andrea, alla fine, comprende, che seguire il suo primo impulso renderà poi molto più difficile ricostruire l’amicizia con Giacomo, perché questi magari non capirà perché Andrea ce l’ha tanto con lui: “alla fine cosa gli ho fatto?”, e sarà lo stesso Giacomo a tagliare il rapporto.
Il ragionamento cioè la capacità di guardare all’intensa emozione anche un po’ ragionandoci su è assolutamente fondamentale. Bisogna imparare a dare il giusto peso alle emozioni e ai fatti che le generano. Alla fine, la scorrettezza di Giacomo non è la fine del mondo!
Scoprire di aver compito una scelta sbagliata di solito è doloroso, ma ragionare su come correggerla è altrettanto doveroso, ma attenzione: purché quella scelta sbagliata non abbia comportato una risultato irreparabile, come nel caso dell’ubriaco in macchina che travolge e uccide un pedone! In tal caso, bisogna saper anche affrontare le conseguenze.
Qui arriva l’insegnamento del “grandi” (nel senso dei maestri di vita, ma anche nei discorsi degli insegnanti) la necessità di apprendere a “essere forti”, non solo nei confronti degli altri (ritorniamo al coraggio!), ma anche nei confronti se stessi. Essere forti significa anche sapere ricominciare, ripartire, non lasciarsi trascinare a fondo ma reagire: insomma un combattimento anche con se stessi.
Insomma sempre di combattere si tratta (con noi, per noi, contro noi…). Nella Bibbia, esattamente nel libro di Giobbe, troviamo scritto (citiamo in latino, così facciamo bella figura, ma è un latino facile, facile,) un gran bel programma: “Militia est vita hominis super terram”. La traduzione la lasciamo all’intuizione dei nostri virtuali partecipanti al corso. Di certo, se è così, non è una gran bella prospettiva! O forse, no?
Ma qui, concludendo la prima fase di questo virtuale corso di etica a scuola, abbiamo lo spunto per aprirne una seconda, per cui proprio di combattimenti andremo a parlare.
[1] Notate: non è importante quando ce lo dicono gli altri, ma quando lo sentiamo dentro.
[2] Da dizionario: Sentimento di chi ritiene che il proprio agire sia stato o sia vano
[3] Posso sempre utilizzare un dizionario dei sinonimi e dei contrari: collera, ira, odio, irritazione, rancore
3 Contrario: calma, serenità.
[4] Dal Dizionario: empatia è la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, provare in un certo senso lo stesso sentimento, partecipando alla sua gioia o al suo dolore.
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- PREMESSA
- FARE – NON FARE; GIUSTO – SBAGLIATO?
- ANCORA SUL GIUSTO-INGIUSTO
- PARLIAMO UN PO’ DI “CORAGGIO”
- EMOZIONI PER CONOSCERE E RICONOSCERSI
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