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Il grande dibattito quotidiano (un dibattito o un continuo elevare allarmi spesso ossessivo e violento nella terminologia?) sul fenomeno dell'arrivo in Italia sui barconi di centinaia di migliaia di profughi, immigrati, è senz'altro un problema grave e complesso che tocca particolarmente l'Italia per la sua conformazione geografica di migliaia di km di coste.

Il problema, lo sappiamo, è quello di decine di migliaia di persone provenienti in maggioranza dall'Africa e dal Medio Oriente (clandestini? Profughi? Immigrati per motivi economici...? Già la denominazione rappresenta una discriminante) che, a seconda del contesto, suscita allarme, rifiuto, invito all’accoglienza…  E sta diventando ogni giorno sempre più grande non solo perché i vari enti preposti fanno scelte giudicate sbagliate o sgradite, ma per il fatto che ogni cittadino si sente coinvolto, anche se nel proprio comune immigrati non ce ne sono o non se ne è notata la presenza come problema.

E, quindi, da qui emerge una domanda: come si dividono gli italiani?

Si ha l'impressione che, chiamati in causa i comuni cittadini, nascano schieramenti netti con reciproche accuse tra fronti contrapposti: a seconda della collocazione si viene etichettati come razzisti o buonisti.

È una etichettatura di comodo che emerge soprattutto nei quotidiani dibattiti televisivi, che sono quelli che poi formano le opinioni, più dei quotidiani i quali, pur schierati da una ben precisa parte, hanno almeno il merito di non esasperare gli animi con immagini di gruppi di gente pronte a qualsiasi gesto (a parole, fortunatamente) che denunciano vessazioni di ogni genere da parte degli organi dello Stato.

Il problema è di sicuro grave, complesso, di difficile gestione, come si vede crea reazioni spesso molto violente, ma quasi mai questo “parlare di pancia” lascia posto a una riflessione pacata, che pure sarebbe importante. Come e quanto questi temi entrino nella scuola, non lo saprei dire, ma credo che non ne rimanga estraneo. Io non saprei dire quanto la problematica geopolitica e la contemporaneità abbiano occasioni di coinvolgere anche gli addetti, in quali momenti e come entrambe vengano svolte. Forse, su alcuni temi gli insegnanti, pure preparati e con idee precise, preferiscono agire con prudenza su temi così scottanti. O mi sbaglio?


Ma non è solo qui. Il problema, come dimensione educativa nella comunicazione, non è qualcosa che riguarda solo scuola, alunni, docenti ma si ripercuote nella società, investe tutta la comunità, C’è infatti la necessità di fare crescere la consapevolezza della complessità in ogni problema socio-politico in modo di togliere quanto spazio possibile agli imbonitori che proclamano a ogni pie sospinto che tutto è facile, semplice basta la "volontà politica ", ma con il risultato di aumentare rancore e frustrazione, insomma, veleni venduti come antidoto ai mali di oggigiorno.

Da parte mia, vorrei pormi dal punto di vista di un educatore che in questo sito ha interessi prevalentemente su temi educativi e didattici, ma pur da un particolare taglio professionale nessun argomento può dirsi estraneo e credo che la competenza e l’autorizzazione ad esprimersi appartengano a ogni persona di cultura nel suo proposito di presentare valutazioni, idee, proprie visioni nel libero confronto.

Immagino, così, di essere chiamato a presentare un modello espositivo non solo più sereno, qui ne sento la necessità, ma fondato su una metodologia definita. Provo cioè a costruire, come dire?, una dispensa o lo schema di un percorso.

Premetto che nella mia convinzione ogni discorso deve sempre essere validato il più possibile da dati oggettivi, muovere da essi con uno sviluppo rigoroso delle argomentazioni, senza cioè buttare parole a vuoto.

Ora la prima domanda: quanto sono conosciuti i fatti di cui tutti discutono?

I fatti si possono conoscere per esperienza diretta (“nel Comune ci sono stati nuovi arrivi? Quali problemi hanno comportato? Quale il rapporto con la popolazione ecc?”). Quanti di quelli che partecipano alle discussioni li hanno personalmente incontrati, quanti, fra coloro che intervengono portano testimonianza diretta sul campo, quanti, al contrario, si esprimono soltanto per sentito dire?

E quindi mi propongo nella mia esposizione, per quanto possibile, di attenermi alla concretezza dei dati oggettivi con una ricerca facilmente fattibile.

  • Chi sono, quanti, da dove provengono? Quanti uomini, donne, bambini (quasi sempre gli ultimi due provengono da zone di guerra…)
  • Che cosa li spinge: guerra, povertà, miseria, o soltanto il desiderio di una vita meno disagiata con maggiori possibilità?
  • Quale il quadro socio politico ed economico da cui muovono? Questo è determinante? Non c’è solo la guerra, anche feroci dittature, terrorismo e miseria sono elementi determinanti.
  • Non quali problemi “potrebbero” dare, ma quanti ne hanno realmente dati nel tessuto in cui sono inseriti?

Questo dovrebbe permettere una riqualificazione della terminologia usata, si tratta di maggioranza o totalità di clandestini o di profughi?  Ma non può essere l’esponente di un partito a dircelo volendo suscitare in noi particolari emozioni. Questa si ricava dai dati oggettivi.

Chiaramente l’atteggiamento nostro è subito nettamente diverso se pensiamo di trovarci di fronte a un clandestino (nell’immaginario potenzialmente pericoloso, violento, magari stupratore e criminale) o donne e bambini (ma pure uomini) che hanno vissuto sulla loro pelle sofferenze per noi immaginabili.

 Concluderei questa parte introduttiva con ulteriori domande: quali sentimenti avverte la maggior parte della gente di fronte a un fatto nuovo ma soprattutto relativamente improvviso (insicurezza, paura di quello che potrà succedere per il futuro, bisogni, … e contro chi…)?


Gli studiosi di sociologia e dei comportamenti puntualizzano che due sono qui le paure degli italiani: la paura della criminalità e la crisi economica, che rende insostenibili i costi della gestione degli immigrati (“prima i nostri poveri…”, ora anche: “prima i nostri terremotati”)

E qui prende avvio il secondo capitolo del mio ipotetico svolgimento, che si esprime con il titolo: proviamo a ragionare!

La regola generale è che l’emotività deve essere sottoposta alla verifica e al giudizio della ragione, e che questa deve attenersi alla puntuale conoscenza dei fatti. Fare un richiamo alla ragione o alla ragionevolezza può essere di utilità, perché non sostituisce il compito di chi deve trovare soluzioni ai problemi, né toglie peso agli stimoli, né nega la novità o la gravità, ma almeno cerca di frenare, se possibile, le ansie che fanno vivere più male (di quanto già non si viva male per cento altre cose) molta gente e, soprattutto, permette di individuare possibili strade da percorrere.

Vogliamo esprimerci con un linguaggio meno corretto? “Diamoci una calmata, abbandoniamo per un po' la pancia e cominciamo a ragionare con la testa, e forse le cose appariranno un po’ diverse”.

Allora, di fronte ai quotidiani dettati dalle notizie dei giornalieri: arrivi di barconi, immediatamente seguiti da proclami, allarmi, incitamenti a fare “qualcosa”, quale la strada per sfuggire alla tentazione dell’ansia, del pregiudizio o, peggio ancora dell’odio verso il “nuovo”, il “diverso” visto come pericolo? Perché in fondo, anche chi non si sente portato verso una precostituita ostilità, vive certamente questo fenomeno con forte ansia.

L’uso critico della ragione (e del ragionamento richiede impegno, ma non è difficile, richiede fidarsi di più di chi ha le competenze giuste e pratica un sano equilibrio (come dovrebbe emergere in ogni rapporto “politico”).

Ritornando ai nostri ricordi scolastici, non dimentichiamoci di una cosa: che fenomeni come questo di cui stiamo parlando, sono già ampiamente successi nella storia dell’umanità e dell’Italia, in particolare.

LA STORIA

Quello a cui stiamo assistendo è un fatto nuovo, e, soprattutto, siamo di fronte a una “invasione” come comunemente ci viene detto?

La storia dice che la storia dell'umanità e stata una storia di continue mutazioni e trasformazioni del tessuto geopolitico, socioeconomico e che la storia dell'umanità può essere correttamente letta anche come successivo susseguirsi di emigrazioni, di grandi popoli o anche di fenomeni più limitati ma che in ogni modo toccano da vicino territori e comunità. Non dimentichiamo l’epica antica (virgiliana e per giunta gloriosa!), fondata sui viaggi e il superamento di ostacoli come strada da praticare per ogni uomo. La grande Roma (quella di Augusto) sarebbe stata fondata dal buon Enea, il quale, guarda caso, era un esule fuggito dalla sua città in fiamme. Più profugo, o invasore, a seconda dei punti di vista, di così!

Vogliamo fare un elenco, ma assai incompleto, di cosiddette “invasioni” (visto che oggi si parla, chiaramente a sproposito, ma con una ricaduta di effetti, di “invasione”?) che hanno coinvolto il territorio italiano ponendoci la domanda: “siamo di fronte a una vera invasione?”

Ricordiamo per prime le cosiddette invasioni barbariche a partire dal IV secolo dell'era cristiana e per diversi secoli successivi che hanno permeato tutta la società del tempo. Solo la citazione di un episodio orientativo: la vittoria del generale romano Ezio contro Attila ai Campi Catalaunici (451) fu determinata dall’apporto decisivo degli alleati Goti. Ma l’esercito di Ezio non era più composto dai legionari romani ma da milizie di origine barbarica.

In Sicilia gli Arabi arrivano nel 827 d.C. (anche loro, guarda un po’ musulmani!). Vengono soppiantati dai Normanni nel 1061, ma lasciano le tracce di una splendida civiltà.

E se pensiamo al Nord-Est l’ultima grande invasione, quella degli Ungari, avvenne alla fine del IX secolo, si spinse fino a Pavia quasi in contemporanea con le incursioni dei Saraceni in Italia meridionale per cui noi (Veneti, o, forse, Padani?) siamo (storicamente) figli di tanti padri.


L’esperienza storica dice inoltre che, anche se segnata da improvvisi e rapidi cambiamenti, la trasformazione ha avuto esiti positivi. Le stesse invasioni barbariche che noi immaginiamo appunto come “barbariche”, in realtà solo in parte hanno avuto caratteri violenti, ma sono frutto di una progressiva assimilazione non conflittuale. Per il resto esse hanno innestato un tessuto culturale nuovo, ma non nostalgico; per l’apporto portato dalle nuove popolazioni così si è maturata maturare una nuova civiltà anche per la funzione promotrice svolta dal monachesimo.

Fenomeni meno conosciuti se ne trovano tanti. Richiamo quello che è avvenuto a partire dall'anno mille nelle montagne del vicentino e del veronese, dall’altopiano di Asiago alla Lessinia, colonizzate da popolazioni tedesche, che hanno lasciato profonde impronte ancora oggi perfettamente riscontrabili nel dialetto nei toponimi, nel culto dei santi. Esse fanno quindi parte del nostro patrimonio culturale.

Se poi giungiamo ai nostri giorni, negli anni 50 l'Italia ha vissuto la sua trasformazione industriale al nord con una emigrazione interna dal sud. E anche allora non è che gli immigrati calabresi fossero poi accolti proprio bene dai borghesi sabaudi (“non si affitta ai meridionali”). Ma quanti sono oggi i torinesi veramente “torinesi”?

E poi ancora piccole e meno visibili, ma sensibili, trasferimenti interni.

Quando nacque la nuova scuola media unica primi anni 60 in tutti i comuni, il Veneto si trovò carente di insegnanti e molti furono insegnanti meridionali, ma pure del centro Italia, che si traferirono nei vari comuni con la loro nuova scuola (senza per questo essere “deportati”). Fa parte del mio ricordo personale (anche la memoria è uno strumento per fare storia) in quegli anni il timore che tanti genitori esprimevano circa il contatto dei loro bambini con persone dall’accento e dalle espressioni così apparentemente strane (“ma sono capaci gli insegnanti siciliani/napoletani ad insegnare l’italiano o la matematica quando molti bambini non li capiscono?”). Alcuni di questi, giunti nel Nord successivamente sono tornati nelle loro regioni, altri si sono fermati definitivamente formando famiglie che sono, a ogni effetto, venete, lombarde o piemontesi. L’elenco ovviamente non si ferma qui…

IL PRESENTE

Il presente certamente è segnato “anche” da questo problema veramente epocale della immigrazione di massa, ma non è l’unico. Esso si intreccia con altri ben più radicati, ma c’è il pericolo di confonderli e pensare che l’uno comprenda tutti.

Ogni informazione su qualsivoglia tema dovrebbe in ogni caso caratterizzarsi come “operazione di verità”, e cioè impegnare l’utilizzo completo di tutti i dati disponibili non selezionando quelli che più fanno comodo nel sostenere le proprie ragioni.

Il primo argomento da discutere è se esista un rapporto stretto tra l’immigrazione da un lato e povertà, crisi… dall’altro. Come sempre preferisco rispondere a delle domande (io parto sempre da domande, le conclusioni arrivano dopo, magari da sole…).

 “Se non c’è lavoro per noi italiani, se non abbiamo i mezzi per i nostri poveri, come pensiamo di accettare un grande numero di arrivi?”. Ecco l’espressione comunemente più diffusa. C’è una crisi economica oggi qui da noi (e non solo qui)? Sicuramente. Le cause, lo sappiamo sono molteplici e anche le modalità con cui essa si manifesta; se ne può fare un lungo elenco: nuove povertà, carenza o precarietà dei posti di lavoro, incertezze insicurezza per il welfare, magari discutendo sui numeri e quali categorie sono più investite.


Il fenomeno dell’immigrazione ha un rapporto con la crisi economica?  La aggrava? La domanda può essere però posta in modo diversamente provocatorio: se qui da noi non fosse arrivato nemmeno un immigrato, staremmo, oggettivamente e non psicologicamente, meglio, avremmo meno povertà, meno crisi economica, più lavoro? La situazione, a causa delle immigrati, si è aggravata? Se la risposta (probabilmente) è no, potremmo dire che questi sovradimensionati arrivi si aggiungono a una situazione già difficile, ma non ne mutano sostanzialmente la qualità.

Secondo approfondimento nella mia ipotetica dispensa. Perché oggi questa cosiddetta invasione fa paura tanto da suscitare reazioni aggressive ed emotive?

La risposta non è difficile: a mio parere, non è per il numero. Centottantamila immigrati (questo è il numero che si dovrebbe raggiungere dopo l’inverno) ripartiti in 8000 comuni comporterebbero un aggravio di presenza per ogni comune di 22 persone circa, ma va fatto un discorso proporzionale. Anche se tutti i nuovi immigrati intendessero rimanere qui da noi (il che non è quelle che vogliono), noi avremmo un immigrato/clandestino ogni 300 abitanti (è chiaro che se invece sono concentrati soltanto in alcuni luoghi, la situazione è ben diversa). Possiamo parlare di numero insostenibile?

Sono diversi, giovani, senza occupazione e quindi vivono a sbafo e soprattutto rappresentano una pieno fattore di insicurezza per la nostra gente, soprattutto donne e anziani”. È una paura che corrisponde ai fatti? Di tutti i crimini di varia gravità che vengono commessi quotidianamente nel Paese quanti sono da attribuire a questi immigrati? È pur sempre una questione di dati numerici!

Abbiamo paura solo perché si tratta di persone diverse? Diverse in che senso? Negli asili, nelle scuole elementari o medie nella maggior parte delle città medio-grandi le classi sono piene di bambini provenienti da ogni parte del mondo, e i bambini, come sempre, non se ne fanno un grande problema.

Sono musulmani e quindi potenziali terroristi!”. Affermazione non vera, solo una minoranza vengono da paesi musulmani, e poi non è detto che siano terroristi, specialmente se donne e bambini, ma la maggioranza di essi sono africani e cristiani. Anche qui i dati numerici ci sono, ma non vengono conosciuti o presi in considerazione.

Gli immigrati sono persone che portano le famiglie, e per giunta numerose”. Nel corso del tempo, l’immigrazione su vasta scala trasformerebbe le culture dei paesi in modo multiforme. E se ciò rappresentasse un arricchimento invece che un impoverimento? Ritornando al discorso iniziale, cosa ci insegna la storia?

 Terza obiezione. “La grande immigrazione comporta la perdita della nostra identità “cristiana”. Che cosa intendiamo per identità cristiana? Seguire gli insegnamenti del Vangelo? Accettare i valori della morale e dei precetti portati da Gesù, o un vago sentimentalismo e nostalgia di tradizioni, che però non sono più vissute nel contesto attuale? Il senso evangelico dell’accettazione (cioè la pratica delle famose “opere di misericordia” del vecchissimo catechismo) non è parte costitutiva di una identità cristiana? E, quindi, pongo la questione quanto di questa identità cristiana, dei suoi valori e dei suoi insegnamenti è ancora radicata nel nostro popolo? Siamo onesti con noi stessi: chi oggi può dire di vivere una vera “identità” cristiana?


“Portano via il lavoro ai nostri giovani”. È l’accusa più debole. Ad oggi sono innumerevoli gli “arrivati” da anni che fanno lavori che nessun italiano vuole fare. Innumerevoli sono poi le aziende che cercano manodopera specializzata e non trovano risposta. Forse i “giovani italiani” vorrebbero fare “solo” un certo tipo di lavoro. Ma non c’è lavoro! L’Italia non è un piccolo paese, come l’Olanda, ma è un territorio grande in buona parte spopolato nelle montagne del centro e del sud. Esiste un enorme patrimonio abitativo ed economico, praticamente oggi abbandonato, che avrebbe bisogno di essere ripreso, ci sono attività lavorative trascurate o rifiutate che vanno riattivate, dedicando ad esse l’opportuna manodopera.

Infine: il fenomeno non è economicamente sostenibile. È l’ultima fra le obiezioni espresse che qui vorrei discutere. Intanto osservo che da quello che si vede una buona parte dell’impegno necessario è sostenuto dal volontariato, da sempre rivelatosi una nostra grande risorsa. C’è poi un contributo che viene dalla Comunità Europea. Non tutto cioè pesa sulle spalle della gente comune.

L’osservazione ha un fondamento se immaginiamo il costo economico di questa massa di persone permanentemente per anni a carico della comunità, ma questo deve essere assolutamente superato nel medio termine con un grande progetto di integrazione e inserimento, che ripaghi i sacrifici che ora, a diverse misura non così drammatica come strumentalmente si sostiene, tutti stiamo sostenendo. È un compito progettuale che non spetta solo agli enti alle istituzioni, ma deve esprimersi in un progetto a cui partecipiamo un po’ tutti (e a dire il vero questo, in parte, qua e là ha avuto inizio): scuola, corsi di formazione, esperienze di inserimento e di collaborazione... È additato l’esempio di Riace, un borgo calabrese che ha ripreso vita grazie al contributo di una immigrazione recente.  L’essere attivamente presenti nei paesi con attività di pulizia e manutenzione permette l’incontro con la gente del posto e il superamento di pregiudizi.

La grande scommessa per l’Italia soprattutto è trasformare questo problema (perché tale effettivamente lo è) in una grande risorsa, un’opportunità.

E non è che questa sia un’opzione; è una necessità: tutti i dati demografici dicono che la popolazione italiana sta rapidamente invecchiando, si fanno sempre meno figli e questo non permette il pieno ricambio generazionale non solo nel lavoro (chi pagherà altrimenti le pensioni ai cinquantenni d’oggi?) ma anche nella crescita della comunità. L’Italia ha bisogno d’essere ri-costruita, bonificata, ha bisogno di nuova manodopera, ma soprattutto ha bisogno di svecchiarsi nell’incontro con nuove culture. Io che, fortunatamente, ho la possibilità di aver dedicato questi ultimi anni a girare il mondo, mi rendo conto che cosa significhi incontrare gente con costumi, atteggiamenti diversi dai nostri abituali. Ne ritorno sempre psicologicamente arricchito e ricaricato.

È una scommessa culturale fondamentale, su cui veramente giochiamo il nostro futuro. Questo non significa, sia ben chiaro, che non si debba limitare, controllare le entrate. Io qui tenterei la mia personale conclusione: dobbiamo avere paura di fronte a quello che avviene oggi?

No, dobbiamo invece avere coscienza che il presente non ce lo scegliamo, ogni età ha avuto il suo presente spesso drammatico. A noi è capitato questo, possiamo però indirizzarlo e costruirlo. Il nostro tempo è segnato anch’esso, come tanti altri, da cambiamenti giustamente definiti epocali. Li possiamo rifiutare, magari cambiando governo o scegliendo questo o quel partito politico? La storia dice di no. Nessuno finora ha ipotizzato (per fortuna!) che tutto si può fermare sparando sulle navi o immaginando di non salvare i naufraghi che stanno per annegare.

Possiamo però analizzare le paure individuando risposte e risorse.  La paura appare sempre nei grandi cambiamenti nell’età di ogni persona e noi sappiamo che dobbiamo farvi fronte, trovando energie, forza, coraggio, non fuggendo. Questo vale anche per una Nazione. La risposta perciò è non dobbiamo avere paura ma siamo di fronte a un problema che deve avere una comprensione, una accettazione, una individuazione di soluzioni a breve e a più lungo termine.

Questo è compito di chi è responsabile, ma individuare e collaborare, con il realismo di idee e proposte, è compito di tutti. Ecco perché, riprendendo dall’inizio, questo particolare momento storico ha un importante collegamento con la formazione e l’educazione delle coscienze. È quindi un problema educativo.

 

Antonio Boscato